Le Virtù, una minestra ma anche un modello etico
L’antropologo Ernesto Di Renzo spiega il piatto teramano del primo maggio «Un cibo rituale tipico del sistema produttivo agrario premoderno»
Il Primo maggio è il giorno delle Virtù, il piatto tipico della cucina teramana. Sul significato simbolico di questo piatto tradizionale pubblichiamo un articolo di Ernesto Di Renzo, antropologo dell’Università di Tor Vergata.
Si è svolto di recente a Roma un importante convegno di studi dal titolo “Le virtù del riciclo alimentare”, promosso dall’Università di Tor Vergata e dalla Fondazione De Victoriis Medori De Leone. L’evento, che ha coinvolto esperti di taratura nazionale e internazionale, dovendo dibattere di temi di ineludibile urgenza riguardanti le sorti future del pianeta, ha voluto espressamente ispirarsi a uno dei piatti più rappresentativi della gastronomia abruzzese, le virtù, proponendolo alla pubblica opinione come un caso emblematico del non-spreco alimentare. Come un modo virtuoso di rapportarsi al cibo dove gli avanzi sono trasformati in ricetta e la pratica del riuso in lusinga del palato.
Ma cosa sono le virtù e quali caratteristiche possiede questa tipicità della tavola contadina al punto da costituire un modello esemplare del mangiare etico? In termini culinari le virtù sono una minestra “maritata” i cui ingredienti consistono in legumi e verdure di vario genere cui si possono aggiungere diverse qualità di pasta secca e, eventualmente, ritagli di pancetta, guanciale, cotica, o semplice osso di prosciutto. La caratteristica peculiare di questa pietanza, che la rende esclusiva in rapporto a qualunque altra tipologia di zuppa della gastronomia italiana, è che ogni singolo ingrediente viene cucinato secondo i modi e i tempi che gli sono propri. A cottura ultimata, tutto viene amalgamato assieme e adeguatamente insaporito con una ricca base aromatica di finocchietto, sedano, salvia, alloro, cipolla, aglio, timo, maggiorana, origano, che ne completa la sapidità. Il risultato finale è un piatto capace di garantire un’esperienza gastronomica unica dove il gusto si esprime nelle sue diverse forme percettive: di vista, di olfatto, di sapore, ma soprattutto di tatto, inteso nella sua dimensione di consistenza palatale degli alimenti. In termini interpretativi più consoni a una lettura di tipo antropologico, invece, le virtù rappresentano un cibo rituale tipico del sistema produttivo agrario premoderno il cui significato è da comprendersi in funzione di due particolarità che lo contraddistinguono: la natura dei suoi componenti e la preparazione calendariale. Relativamente alla prima particolarità, più che significarsi per l’estrema varietà di ingredienti con i quali le diverse consuetudini locali provvedono a confezionare e denominare la ricetta (virtù nel teramano, lessagne nel chietino, totemaje nel sulmonese, pignata nel sangritano), questo piatto si caratterizza per il suo essere l’espressione di una visione del mondo fuori dai canoni del consumismo capitalistico e delle logiche dell’usa e getta. Una visione dove lo spreco non ha spazi di significato, dove gli avanzi del pranzo diventano il cibo della cena e dove le pratiche del riuso (alimentare, vestimentario, oggettuale, onomastico) esprimono un fare necessario, intelligente, naturale. Anche laddove si tratti di semplici rimasugli di fagioli, ceci, farro, lenticchie, fave, cicerchie, grano, che residuano all’interno di dispense in procinto di riempirsi di nuove provviste. Riguardo la seconda particolarità, la preparazione delle virtù nella ricorrenza del 1 maggio, o nei giorni ad esso adiacenti, oltre a conferire alla ricetta il connotato di un pasto “festivo” da consumarsi con devozione e tradizionalità di preparazione, ne tradisce anche un’origine precristiana collegabile al ciclo delle stagioni, al vitalismo primaverile e alla propiziazione dei raccolti. Ma le virtù, oltre ad essere il cibo del riuso per eccellenza, oltre a essere un modo ossequioso di rapportarsi alla sacralità degli alimenti, oltre a essere una ricetta del folklore contadino al centro di un fiorente revival gastronomico, può rappresentare anche altro: ossia l’efficace vessillo (brand) di una regione che per i suoi connotati di autenticità culturale è in grado di candidarsi a meta di un turismo sostenibile capace di appagare le esigenze di viaggiatori sempre più desiderosi di coinvolgersi in esperienze totalizzanti con l’anima dei luoghi. Esperienze di cui i cibi, se sapientemente (ri)pensati e capacemente inseriti all’interno di una visione unitaria di promozione territoriale, possono rappresentare l’irresistibile e polisensoriale via di accesso.
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Si è svolto di recente a Roma un importante convegno di studi dal titolo “Le virtù del riciclo alimentare”, promosso dall’Università di Tor Vergata e dalla Fondazione De Victoriis Medori De Leone. L’evento, che ha coinvolto esperti di taratura nazionale e internazionale, dovendo dibattere di temi di ineludibile urgenza riguardanti le sorti future del pianeta, ha voluto espressamente ispirarsi a uno dei piatti più rappresentativi della gastronomia abruzzese, le virtù, proponendolo alla pubblica opinione come un caso emblematico del non-spreco alimentare. Come un modo virtuoso di rapportarsi al cibo dove gli avanzi sono trasformati in ricetta e la pratica del riuso in lusinga del palato.
Ma cosa sono le virtù e quali caratteristiche possiede questa tipicità della tavola contadina al punto da costituire un modello esemplare del mangiare etico? In termini culinari le virtù sono una minestra “maritata” i cui ingredienti consistono in legumi e verdure di vario genere cui si possono aggiungere diverse qualità di pasta secca e, eventualmente, ritagli di pancetta, guanciale, cotica, o semplice osso di prosciutto. La caratteristica peculiare di questa pietanza, che la rende esclusiva in rapporto a qualunque altra tipologia di zuppa della gastronomia italiana, è che ogni singolo ingrediente viene cucinato secondo i modi e i tempi che gli sono propri. A cottura ultimata, tutto viene amalgamato assieme e adeguatamente insaporito con una ricca base aromatica di finocchietto, sedano, salvia, alloro, cipolla, aglio, timo, maggiorana, origano, che ne completa la sapidità. Il risultato finale è un piatto capace di garantire un’esperienza gastronomica unica dove il gusto si esprime nelle sue diverse forme percettive: di vista, di olfatto, di sapore, ma soprattutto di tatto, inteso nella sua dimensione di consistenza palatale degli alimenti. In termini interpretativi più consoni a una lettura di tipo antropologico, invece, le virtù rappresentano un cibo rituale tipico del sistema produttivo agrario premoderno il cui significato è da comprendersi in funzione di due particolarità che lo contraddistinguono: la natura dei suoi componenti e la preparazione calendariale. Relativamente alla prima particolarità, più che significarsi per l’estrema varietà di ingredienti con i quali le diverse consuetudini locali provvedono a confezionare e denominare la ricetta (virtù nel teramano, lessagne nel chietino, totemaje nel sulmonese, pignata nel sangritano), questo piatto si caratterizza per il suo essere l’espressione di una visione del mondo fuori dai canoni del consumismo capitalistico e delle logiche dell’usa e getta. Una visione dove lo spreco non ha spazi di significato, dove gli avanzi del pranzo diventano il cibo della cena e dove le pratiche del riuso (alimentare, vestimentario, oggettuale, onomastico) esprimono un fare necessario, intelligente, naturale. Anche laddove si tratti di semplici rimasugli di fagioli, ceci, farro, lenticchie, fave, cicerchie, grano, che residuano all’interno di dispense in procinto di riempirsi di nuove provviste. Riguardo la seconda particolarità, la preparazione delle virtù nella ricorrenza del 1 maggio, o nei giorni ad esso adiacenti, oltre a conferire alla ricetta il connotato di un pasto “festivo” da consumarsi con devozione e tradizionalità di preparazione, ne tradisce anche un’origine precristiana collegabile al ciclo delle stagioni, al vitalismo primaverile e alla propiziazione dei raccolti. Ma le virtù, oltre ad essere il cibo del riuso per eccellenza, oltre a essere un modo ossequioso di rapportarsi alla sacralità degli alimenti, oltre a essere una ricetta del folklore contadino al centro di un fiorente revival gastronomico, può rappresentare anche altro: ossia l’efficace vessillo (brand) di una regione che per i suoi connotati di autenticità culturale è in grado di candidarsi a meta di un turismo sostenibile capace di appagare le esigenze di viaggiatori sempre più desiderosi di coinvolgersi in esperienze totalizzanti con l’anima dei luoghi. Esperienze di cui i cibi, se sapientemente (ri)pensati e capacemente inseriti all’interno di una visione unitaria di promozione territoriale, possono rappresentare l’irresistibile e polisensoriale via di accesso.
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