Viola Di Grado «Il cuore gelido del nostro futuro»
La scrittrice Premio Campiello Opera prima 2011 sabato all’Aquila con il suo libro Bambini di ferro
«Che mondo sarà nel 4038 e cosa sarà stato di noi? Cosa ne sarà dei sentimenti spontanei, dei sussulti del cuore, più in generale, dei rapporti umani?». La penna di Viola Di Grado, attraverso il suo romanzo “Bambini di ferro”, si confronta con questi punti di domanda. Il risultato è un potente racconto giocato in un vertiginoso oscillare tra la più antica tradizione buddhista e la gelida essenza hi-tech di un futuro che è già presente. Sabato, la giovane scrittrice sarà all’Aquila per parlare del suo libro, insieme allo scrittore Stefano Carnicelli e all’attrice Barbara Bologna che ne leggerà alcuni passaggi con accompagnamento di chitarra e voce. L’appuntamento è alla libreria Maccarrone alle 18,30. Con il suo primo romanzo “Settanta acrilico trenta lana” (pubblicato nel 2011 quando aveva 23 anni), l’autrice è stata la più giovane vincitrice del Premio Campiello Opera prima e la più giovane finalista del Premio Strega. Ha vinto altri premi e i suoi scritti sono stati già tradotti in diverse lingue. Dopo il volume d’esordio, ha pubblicato “Cuore cavo” nel 2013 e proprio “Bambini di ferro” nel 2016.
Siamo in Giappone. In un tempo sospeso tra primavera ed estate. In un futuro molto vicino, il governo giapponese decide di affidare l'accudimento dei bambini a delle «unità materne artificiali», delle madri robot. Solo loro riusciranno a crescere i bambini in modo perfetto, trasformandoli in adulti felici e produttivi nella società. Siamo in un tempo futuro in cui tutto viene codificato e inserito in una fredda e rigida pianificazione. Tutto avviene, o avverrà, in modo freddo e distaccato, in una realtà dominata da apparati hi-tech. Un futuro che, talvolta, assomiglia pericolosamente al nostro presente. Viola Di Grado ne parla in questa intervista al Centro.
Il libro è ambientato in Giappone. Riflette dei tratti biografici, dai suoi studi di filosofia orientale o eppure il fatto di aver vissuto a Kyoto o in Inghilterra?
La narrazione si svolge nel futuro. Dunque purtroppo, in senso autobiografico, non ci sono mai stata. Detto questo, sono convinta che lo scrittore utilizzi i propri strumenti interiori come un'antenna per captare ciò che non gli appartiene. È quello che ho fatto. Ho letto i disastri del futuro come gli antichi cinesi leggevano le risposte divine sui gusci di carapace. Ho letto l'evoluzione naturale dell'alienazione giapponese. Della solitudine. Per fortuna capto ma non so. Come diceva Philip Dick, il dono più grande che ci ha fatto Dio è non vedere il futuro.
Da una parte la lingua italiana, dall'altra usi e costumi di un Paese complesso e controverso come il Giappone. quali difficoltà si incontrano nell'ambientare un romanzo lì, partendo dal nostro punto di vista?
L’alienità è il mio tratto distintivo. Mi rapporto sempre con il non familiare: è ciò che dovrebbe fare lo scrittore, esplorare il non familiare per comprendere davvero ciò che è familiare. Raccontare le proprie realtà è un atto sterile, a meno che venga fatto con strumenti acquisiti attraverso l'esplorazione del non familiare. Zhuangzi, filosofo taoista, diceva che dobbiamo dimenticare il linguaggio. È proprio questo che faccio raccontando storie lontane da me. Dimentico ogni parola, per poi reinventarla.
Quali sono i nodi centrali del narrato?
Mi interessava creare un realismo non antropocentrico, in cui l'umanità non fosse sempre rilevabile negli esseri umani anzi venisse spesso passata agli oggetti, ai robot, ad ogni sorta di feticcio della nostra identità.
Un libro in cui fa capolino l’antica tradizione buddista. Come si concilia con la gelida essenza dell’hi tech?
Buddha sosteneva che l'identità non esiste, che l'io è frammentato. Oggi verrebbe definito schizofrenico e sarebbe imbottito di antipsicotici. Le madri artificiali sono progettate secondo queste teorie sull'identità”.
Quanto conta l'influenza delle lingue straniere nella sua prosa?
Moltissimo. Attraverso lo studio delle lingue ideografiche - che hanno un rapporto più intimo, visivo, col mondo - ho acquisito nuovi poteri analitici ed espressivi. Scrivo ideograficamente, scrivo in lingua aliena.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Siamo in Giappone. In un tempo sospeso tra primavera ed estate. In un futuro molto vicino, il governo giapponese decide di affidare l'accudimento dei bambini a delle «unità materne artificiali», delle madri robot. Solo loro riusciranno a crescere i bambini in modo perfetto, trasformandoli in adulti felici e produttivi nella società. Siamo in un tempo futuro in cui tutto viene codificato e inserito in una fredda e rigida pianificazione. Tutto avviene, o avverrà, in modo freddo e distaccato, in una realtà dominata da apparati hi-tech. Un futuro che, talvolta, assomiglia pericolosamente al nostro presente. Viola Di Grado ne parla in questa intervista al Centro.
Il libro è ambientato in Giappone. Riflette dei tratti biografici, dai suoi studi di filosofia orientale o eppure il fatto di aver vissuto a Kyoto o in Inghilterra?
La narrazione si svolge nel futuro. Dunque purtroppo, in senso autobiografico, non ci sono mai stata. Detto questo, sono convinta che lo scrittore utilizzi i propri strumenti interiori come un'antenna per captare ciò che non gli appartiene. È quello che ho fatto. Ho letto i disastri del futuro come gli antichi cinesi leggevano le risposte divine sui gusci di carapace. Ho letto l'evoluzione naturale dell'alienazione giapponese. Della solitudine. Per fortuna capto ma non so. Come diceva Philip Dick, il dono più grande che ci ha fatto Dio è non vedere il futuro.
Da una parte la lingua italiana, dall'altra usi e costumi di un Paese complesso e controverso come il Giappone. quali difficoltà si incontrano nell'ambientare un romanzo lì, partendo dal nostro punto di vista?
L’alienità è il mio tratto distintivo. Mi rapporto sempre con il non familiare: è ciò che dovrebbe fare lo scrittore, esplorare il non familiare per comprendere davvero ciò che è familiare. Raccontare le proprie realtà è un atto sterile, a meno che venga fatto con strumenti acquisiti attraverso l'esplorazione del non familiare. Zhuangzi, filosofo taoista, diceva che dobbiamo dimenticare il linguaggio. È proprio questo che faccio raccontando storie lontane da me. Dimentico ogni parola, per poi reinventarla.
Quali sono i nodi centrali del narrato?
Mi interessava creare un realismo non antropocentrico, in cui l'umanità non fosse sempre rilevabile negli esseri umani anzi venisse spesso passata agli oggetti, ai robot, ad ogni sorta di feticcio della nostra identità.
Un libro in cui fa capolino l’antica tradizione buddista. Come si concilia con la gelida essenza dell’hi tech?
Buddha sosteneva che l'identità non esiste, che l'io è frammentato. Oggi verrebbe definito schizofrenico e sarebbe imbottito di antipsicotici. Le madri artificiali sono progettate secondo queste teorie sull'identità”.
Quanto conta l'influenza delle lingue straniere nella sua prosa?
Moltissimo. Attraverso lo studio delle lingue ideografiche - che hanno un rapporto più intimo, visivo, col mondo - ho acquisito nuovi poteri analitici ed espressivi. Scrivo ideograficamente, scrivo in lingua aliena.
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