Fazwy costruisce case all’Aquila e al Cairo
Dall’Egitto al capoluogo abruzzese, ecco la storia di un altro dei protagonisti del volume di Pajewski
L’AQUILA. «Devo credere in tutti i libri, il Vangelo, la Bibbia, il Corano. Devo credere in tutto quello che è venuto prima del Profeta. Credo in Maria, e credo in Gesù. La religione è come una regola per la vita, qualcosa che ti aiuta a migliorare, è come il medico che ti toglie una sigaretta al giorno per farti smettere di fumare».
Le mani di Fazwy si muovono nervose quando parla di queste cose. Un punto di incontro tra il suo credo e il punto di vista cristiano – che poi è come guardare la stessa cascata, ma da due versanti – è tutt’altro che scontato specie quando c’è chi costruisce carriere politiche sulla paura del diverso. Ma Fazwy è qui e mette a disposizione la sua storia e la sua esperienza a chiunque gli chieda un parere, magari in una pausa di lavoro in uno dei tanti cantieri post-sisma.
La sua è un’altra storia di quelle raccolte nel libro fotografico di Claudia Pajewski “Le mani della città”, un viaggio all’interno dei veri protagonisti della ricostruzione: gli operai. «In famiglia siamo più di cinquemila», racconta Fazwy, quasi a definire un background della sua vita. «Ci incontriamo quando c’è un evento importante, un funerale oppure un matrimonio. Da noi non si fa la festa al ristorante come qua. In Egitto si fa in strada, si ammazza la mucca, si canta e si danza per tre giorni. La prima volta che mi hanno invitato a un matrimonio in Italia eravamo trenta persone, non ci potevo credere. Mio padre aveva tante mogli e tanti figli, è morto quando avevo quattordici anni e tutto si è diviso tra tutti. Così ho dovuto pensare da solo a me stesso». È arrivato in Italia negli anni Novanta. «Ho fatto per un po’ il commesso, poi ho iniziato a lavorare nella ditta di un tipo che faceva ristrutturazioni», ricorda. «I miei figli sono tornati in Egitto. Io sono qui in Italia per il loro futuro, non per me. Sto costruendo una grande casa al Cairo, un domani potrò affittarla, così se non potrò più lavorare non avrò bisogno di niente e alla fine la lascerò ai miei figli».
La sua storia personale s’intreccia con le difficoltà a guardare oltre le instabilità politiche e socioeconomiche della sua area d’origine. «La situazione in tutto il Medio Oriente è molto difficile adesso, ma non c’entra niente la religione», spiega. «È una questione di soldi. Io sono musulmano e ho tanti amici ebrei, cristiani, anche amici che non seguono nessuna religione. Tutte le religioni sono come una scala, per essere musulmano credente devo credere prima di tutto alla religione ebraica, poi alla religione cristiana, poi alla religione musulmana». Un discorso che tiene fuori paura e intolleranza. «Noi non abbiamo paura del terrorismo, lo affrontiamo», sottolinea. «È la paura a fare male, non ti permette di guardare negli occhi quello che ti sta davanti. Se lo fai è chi ha le armi ad avere paura, perché dentro sa bene che ciò che fa non è giusto. Tutte le religioni vanno sempre verso il bene». (fab.i.)
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