«Nei container-ghetto si dorme in sette»
L’ultima testimonianza dal libro “Le mani della città” è uno spaccato sulle ombre della ricostruzione
L’AQUILA. L’ultima storia raccolta nel libro fotografico “Le mani della città” non ha un nome né un volto. O meglio, il nome e il volto appartengono a tutti quegli operai le cui ossa fanno le spese di un contesto socio-economico legato alla ricostruzione in un momento in cui i grandi del mattone non si buttano più sull’Aquila perché i pagamenti arrivano tardi e c’è poco margine di guadagno.
Non è più come nella fase emergenziale in cui hanno costruito le new town.
«Il subappalto per un General Contractor è fondamentale», si legge nell’ultima pagina del volume. Parte dalla base di acquisizione e gira i subappalti alle aziende specializzate. Questo vuol dire abbassare i costi perché non deve assumere il singolo operaio specializzato e fornire i materiali. Le aziende più grandi fanno così».
E poi c’è il cosiddetto caporalato. Aziende in subappalto pagate mille e cinquecento euro a operaio, cinquecento le danno al dipendente e mille se le tengono loro. Non è che se esce un articolo smettono di farlo. Tanti operai non hanno nemmeno il conto corrente, il titolare preleva e li paga in nero.
L’ultima testimonianza dai cantieri è una lente di ingrandimento su questa realtà.
«Vivere in un dormitorio è come entrare in un ghetto», racconta uno dei protagonisti. «Sono container in lamiera coibentata, il tempo non passa mai, specialmente l’inverno. Questi che vedi, per esempio, stanno peggio di tutti, hanno il bagno in comune, la mattina tutti in fila all’aperto. Alle aziende dare vitto e alloggio in questi posti costa tre volte di meno. Nel mio c’era anche il bocciodromo e la sala giochi. E il guardiano».
In un contesto come questo la libertà di movimenti è limitata. «Il mercoledì potevo tornare a casa», prosegue la testimonianza, «ma non il martedì e non il giovedì, poi potevo di nuovo partire il venerdì. Il guardiano controlla gli orari di entrata e di uscita. Quando stai nel ghetto sei obbligato a orari di lavoro più lunghi, vivevo con i colleghi e non staccavo mai, è un sistema per farti lavorare di più. A volte il venerdì prendevo la mezza giornata perché ero esausto, ma era sempre una contrattazione. A seconda del ruolo hai diritto a una situazione più o meno confortevole. Il peggio lo passano le squadre esterne, ammassate nello stesso container in sette con zero privacy. Si creano situazioni difficili, interviene anche la polizia perché la gente la sera si ubriaca e nessuno riesce a riposare».
La regola è che oltre i cinquanta chilometri devi rimanere a dormire, se vuoi essere pendolare le aziende non ti prendono. Devi convivere sia con persone perbene che con mezzi delinquenti, gente con la fedina penale sporca. «Io sono stato tre anni in dormitorio, sono posti che non auguro a nessuno»: la testimonianza termina così. (fab.i.)
©RIPRODUZIONE RISERVATA.
Non è più come nella fase emergenziale in cui hanno costruito le new town.
«Il subappalto per un General Contractor è fondamentale», si legge nell’ultima pagina del volume. Parte dalla base di acquisizione e gira i subappalti alle aziende specializzate. Questo vuol dire abbassare i costi perché non deve assumere il singolo operaio specializzato e fornire i materiali. Le aziende più grandi fanno così».
E poi c’è il cosiddetto caporalato. Aziende in subappalto pagate mille e cinquecento euro a operaio, cinquecento le danno al dipendente e mille se le tengono loro. Non è che se esce un articolo smettono di farlo. Tanti operai non hanno nemmeno il conto corrente, il titolare preleva e li paga in nero.
L’ultima testimonianza dai cantieri è una lente di ingrandimento su questa realtà.
«Vivere in un dormitorio è come entrare in un ghetto», racconta uno dei protagonisti. «Sono container in lamiera coibentata, il tempo non passa mai, specialmente l’inverno. Questi che vedi, per esempio, stanno peggio di tutti, hanno il bagno in comune, la mattina tutti in fila all’aperto. Alle aziende dare vitto e alloggio in questi posti costa tre volte di meno. Nel mio c’era anche il bocciodromo e la sala giochi. E il guardiano».
In un contesto come questo la libertà di movimenti è limitata. «Il mercoledì potevo tornare a casa», prosegue la testimonianza, «ma non il martedì e non il giovedì, poi potevo di nuovo partire il venerdì. Il guardiano controlla gli orari di entrata e di uscita. Quando stai nel ghetto sei obbligato a orari di lavoro più lunghi, vivevo con i colleghi e non staccavo mai, è un sistema per farti lavorare di più. A volte il venerdì prendevo la mezza giornata perché ero esausto, ma era sempre una contrattazione. A seconda del ruolo hai diritto a una situazione più o meno confortevole. Il peggio lo passano le squadre esterne, ammassate nello stesso container in sette con zero privacy. Si creano situazioni difficili, interviene anche la polizia perché la gente la sera si ubriaca e nessuno riesce a riposare».
La regola è che oltre i cinquanta chilometri devi rimanere a dormire, se vuoi essere pendolare le aziende non ti prendono. Devi convivere sia con persone perbene che con mezzi delinquenti, gente con la fedina penale sporca. «Io sono stato tre anni in dormitorio, sono posti che non auguro a nessuno»: la testimonianza termina così. (fab.i.)
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