Cartoni: «Date a noi le terre di nessuno»
Allarme cinghiali e aziende faunistiche venatorie in aree abbandonate, le proposte del presidente produttori di selvaggina
PESCARA. «Date a noi quelle terre di nessuno». Così dice Dino Cartoni, presidente nazionale dell’Ente produttori selvaggina (Eps), l’associazione venatoria che si propone di diffondere il concetto di caccia sostenibile. Nell’intervista rilasciata al Centro, Cartoni, imprenditore agricolo di Roma molto conosciuto in Italia, offre le ricette per arginare l’emergenza cinghiali, che in Abruzzo è causa anche di tragedie, per rilanciare turismo e ambiente e soprattutto per creare nuovi posti di lavoro.
La chiave di volta è, in sintesi, un uovo di Colombo, cioè una soluzione sotto gli occhi di tutti: ettari ed ettari di terreni abbandonati e diffusi in Abruzzo, prevalentemente nelle zone montane, che potrebbero diventare una miniera attraverso la wildlife economy: la creazione di aziende faunistiche venatorie riservate alla selvaggina dove anche i cinghiali possono diventare fonte di ricchi guadagni e quindi carburante per il Pil regionale.
Presidente Cartoni, perché l’Abruzzo è continuamente invaso dai cinghiali?
«L’Abruzzo, come accade nel resto d’Italia, subisce l’invasione dei cinghiali perché l’applicazione della legge (la 157) non permette più di gestire la situazione. Il sistema più efficace per contenere il numero dei cinghiali è quello della caccia di selezione che si svolge in base a criteri scientifici suggeriti dall’Ispra e consente di selezionare un bersaglio mirato.
Ebbene, la 157 è una legge vecchia, perché risale ad anni in cui non esisteva l’emergenza per i cinghiali. Oggi, la legge, dovrebbe aumentare il periodo di braccata, portandolo da tre ad almeno cinque mesi l’anno, e incrementare la caccia di selezione.
Tra le nostre richieste c’è anche quella di estendere la terza forma di caccia, ovvero il controllo che ora è appannaggio esclusivo della polizia venatoria, ma va permesso anche ai cacciatori e ai proprietari dei terreni».
Ci sono ritardi e inefficienze delle Regioni?
«La prima cosa da fare sarebbe quella di trasformare gli ungulati, quindi anche i cinghiali, da problema a risorsa, creando filiere che consentano l’utilizzo della selvaggina a scopo alimentare. Ma in Italia ciò si realizza con grandi difficoltà perché manca la volontà politica».
In Abruzzo esistono però consorzi con questa finalità, ed esistono anche bandi con fondi pubblici.
«Allora possiamo dire che in Abruzzo occorre incrementare la filiera. Ma c’è anche un secondo passaggio, quello della proprietà della selvaggina che oggi è patrimonio indisponibile della Stato. Ma noi proponiamo che sia l’agricoltore a gestire la selvaggina».
Qual è dunque il ruolo che l’Ente produttori selvaggina potrebbe svolgere in Abruzzo?
«L’Eps rappresenta le aziende faunistiche venatorie che in Italia possono raggiungere il 15 per cento del territorio agro-silvo-pastorale. Ma in Abruzzo questa realtà è stata smantellata: non ci sono più aziende faunistiche venatorie vere e proprie.
Noi proponiamo anche per l’Abruzzo aziende in cui il proprietario/concessionario sia un cacciatore e, al tempo stesso, un imprenditore agricolo e un ambientalista che produce selvaggina».
E il ruolo dell’Eps nella gestione del territorio?
«Evitare l’abbandono delle terre trasformandole in risorsa economico-occupazionale grazie alle aziende agricole, agri-turistico-venatorie, gestite da allevatori e produttori di selvaggina.
L’Appennino in molti suoi punti, soprattutto quello centrale, ha diverse zone (non riservate a Parco) abbandonate a loro stesse. L’Ente vorrebbe poter sviluppare anche in Abruzzo aziende venatorie così da ripopolare la fauna, gestire il territorio e l’ecosistema, sviluppando il turismo e incrementando il Pil regionale».
La vostra richiesta si può sintetizzare in una frase chiara e immediata rivolta alla Regione?
«Sì, ed è questa: dateci la possibilità di avere terreni per incrementare le aziende faunistiche. Mi riferisco a quelle terre di nessuno, principalmente di montagna, che ora sono abbandonate».
Quali sono gli ostacoli legislativi da rimuovere per sviluppare ulteriormente il settore?
«Abbiamo bisogno di elasticità e velocità nelle decisioni. In Italia occorre in pratica ampliare le superfici disponibili, che ora sono il 15 per cento, e occorre dare all’imprenditore agricolo la possibilità di gestire la selvaggina di proprietà dello Stato».
A questo punto ci dica la portata della wildlife economy, cioè il peso che le aziende italiane che operano nel settore faunistico venatorio possono avere sul Pil.
«La caccia oggi rappresenta lo 0,51 per cento del Pil nazionale. Noi siamo in grado di raddoppiare questo punto creando reddito con gestioni di aree di collina e montagna che oggi vanno in rovina».
Tiriamo le somme: quali sono le richieste dell’Eps che il Centro con questa intervista gira ai neo assessori alla Caccia, Emanuele Imprudente, e alle Attività produttive, Mauro Febbo?
«Le richieste sono 5. Le abbiamo presentate a livello nazionale anche in commissione Agricoltura. Eccole.
1) Le aziende faunistico-venatorie che l’Ente rappresenta sono senza fine di lucro, si vorrebbe trasformarle in aziende agricole a tutti gli effetti e quindi a fini di lucro, andando ovviamente a contribuire alle casse dello Stato versando le tasse. È evidente il vantaggio per l’Erario così come per chi vi lavora, che può vedere davanti a sé certezze di profitto, mostrando in pieno le proprie capacità professionali. Questa è per noi la richiesta principale.
2) L’Ente vorrebbe la reciprocità del porto d’armi: cambiare la normativa permettendo anche ai cacciatori esteri di poter cacciare in Italia. Non sottovaluti in questo caso gli effetti positivi sul turismo anche in Abruzzo.
3) L’ente vorrebbe inoltre che il corso di selecontrollori di Ispra (corso per cacciatori di grossi ungulati- cervo, cinghiale, camoscio, daino, muflone) venga parificato: ossia che valga non solo nella regione d’Italia nel quale viene svolto ma in tutta Italia.
4) L’Appennino, in molti suoi punti, soprattutto quello centrale, ha diverse zone (non riservate a Parco) abbandonate a loro stesse. L’Ente vorrebbe poter sviluppare aziende faunistiche così da ripopolare la fauna, gestire il territorio e l’ecosistema, sviluppare il turismo e incrementare il Pil.
5) Infine l’Eps vorrebbe istituire una vera e propria legge che sblocchi in Italia la nascita della filiera della selvaggina, carne naturale/senza antibiotici».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
La chiave di volta è, in sintesi, un uovo di Colombo, cioè una soluzione sotto gli occhi di tutti: ettari ed ettari di terreni abbandonati e diffusi in Abruzzo, prevalentemente nelle zone montane, che potrebbero diventare una miniera attraverso la wildlife economy: la creazione di aziende faunistiche venatorie riservate alla selvaggina dove anche i cinghiali possono diventare fonte di ricchi guadagni e quindi carburante per il Pil regionale.
Presidente Cartoni, perché l’Abruzzo è continuamente invaso dai cinghiali?
«L’Abruzzo, come accade nel resto d’Italia, subisce l’invasione dei cinghiali perché l’applicazione della legge (la 157) non permette più di gestire la situazione. Il sistema più efficace per contenere il numero dei cinghiali è quello della caccia di selezione che si svolge in base a criteri scientifici suggeriti dall’Ispra e consente di selezionare un bersaglio mirato.
Ebbene, la 157 è una legge vecchia, perché risale ad anni in cui non esisteva l’emergenza per i cinghiali. Oggi, la legge, dovrebbe aumentare il periodo di braccata, portandolo da tre ad almeno cinque mesi l’anno, e incrementare la caccia di selezione.
Tra le nostre richieste c’è anche quella di estendere la terza forma di caccia, ovvero il controllo che ora è appannaggio esclusivo della polizia venatoria, ma va permesso anche ai cacciatori e ai proprietari dei terreni».
Ci sono ritardi e inefficienze delle Regioni?
«La prima cosa da fare sarebbe quella di trasformare gli ungulati, quindi anche i cinghiali, da problema a risorsa, creando filiere che consentano l’utilizzo della selvaggina a scopo alimentare. Ma in Italia ciò si realizza con grandi difficoltà perché manca la volontà politica».
In Abruzzo esistono però consorzi con questa finalità, ed esistono anche bandi con fondi pubblici.
«Allora possiamo dire che in Abruzzo occorre incrementare la filiera. Ma c’è anche un secondo passaggio, quello della proprietà della selvaggina che oggi è patrimonio indisponibile della Stato. Ma noi proponiamo che sia l’agricoltore a gestire la selvaggina».
Qual è dunque il ruolo che l’Ente produttori selvaggina potrebbe svolgere in Abruzzo?
«L’Eps rappresenta le aziende faunistiche venatorie che in Italia possono raggiungere il 15 per cento del territorio agro-silvo-pastorale. Ma in Abruzzo questa realtà è stata smantellata: non ci sono più aziende faunistiche venatorie vere e proprie.
Noi proponiamo anche per l’Abruzzo aziende in cui il proprietario/concessionario sia un cacciatore e, al tempo stesso, un imprenditore agricolo e un ambientalista che produce selvaggina».
E il ruolo dell’Eps nella gestione del territorio?
«Evitare l’abbandono delle terre trasformandole in risorsa economico-occupazionale grazie alle aziende agricole, agri-turistico-venatorie, gestite da allevatori e produttori di selvaggina.
L’Appennino in molti suoi punti, soprattutto quello centrale, ha diverse zone (non riservate a Parco) abbandonate a loro stesse. L’Ente vorrebbe poter sviluppare anche in Abruzzo aziende venatorie così da ripopolare la fauna, gestire il territorio e l’ecosistema, sviluppando il turismo e incrementando il Pil regionale».
La vostra richiesta si può sintetizzare in una frase chiara e immediata rivolta alla Regione?
«Sì, ed è questa: dateci la possibilità di avere terreni per incrementare le aziende faunistiche. Mi riferisco a quelle terre di nessuno, principalmente di montagna, che ora sono abbandonate».
Quali sono gli ostacoli legislativi da rimuovere per sviluppare ulteriormente il settore?
«Abbiamo bisogno di elasticità e velocità nelle decisioni. In Italia occorre in pratica ampliare le superfici disponibili, che ora sono il 15 per cento, e occorre dare all’imprenditore agricolo la possibilità di gestire la selvaggina di proprietà dello Stato».
A questo punto ci dica la portata della wildlife economy, cioè il peso che le aziende italiane che operano nel settore faunistico venatorio possono avere sul Pil.
«La caccia oggi rappresenta lo 0,51 per cento del Pil nazionale. Noi siamo in grado di raddoppiare questo punto creando reddito con gestioni di aree di collina e montagna che oggi vanno in rovina».
Tiriamo le somme: quali sono le richieste dell’Eps che il Centro con questa intervista gira ai neo assessori alla Caccia, Emanuele Imprudente, e alle Attività produttive, Mauro Febbo?
«Le richieste sono 5. Le abbiamo presentate a livello nazionale anche in commissione Agricoltura. Eccole.
1) Le aziende faunistico-venatorie che l’Ente rappresenta sono senza fine di lucro, si vorrebbe trasformarle in aziende agricole a tutti gli effetti e quindi a fini di lucro, andando ovviamente a contribuire alle casse dello Stato versando le tasse. È evidente il vantaggio per l’Erario così come per chi vi lavora, che può vedere davanti a sé certezze di profitto, mostrando in pieno le proprie capacità professionali. Questa è per noi la richiesta principale.
2) L’Ente vorrebbe la reciprocità del porto d’armi: cambiare la normativa permettendo anche ai cacciatori esteri di poter cacciare in Italia. Non sottovaluti in questo caso gli effetti positivi sul turismo anche in Abruzzo.
3) L’ente vorrebbe inoltre che il corso di selecontrollori di Ispra (corso per cacciatori di grossi ungulati- cervo, cinghiale, camoscio, daino, muflone) venga parificato: ossia che valga non solo nella regione d’Italia nel quale viene svolto ma in tutta Italia.
4) L’Appennino, in molti suoi punti, soprattutto quello centrale, ha diverse zone (non riservate a Parco) abbandonate a loro stesse. L’Ente vorrebbe poter sviluppare aziende faunistiche così da ripopolare la fauna, gestire il territorio e l’ecosistema, sviluppare il turismo e incrementare il Pil.
5) Infine l’Eps vorrebbe istituire una vera e propria legge che sblocchi in Italia la nascita della filiera della selvaggina, carne naturale/senza antibiotici».
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