«L’hotel doveva essere chiuso» Ecco i motivi delle 8 condanne 

Per i giudici di secondo grado, il sindaco di Farindola e il tecnico comunale furono «inerti e omissivi» L’ex prefetto risponde del falso, ma non delle morti e delle lesioni. E ora si profila un nuovo ricorso

PESCARA. «L’individuazione (divenuta doverosa dopo la comunicazione della carta storica delle valanghe al Comune di Farindola) dell'area ove sorgeva l’hotel come “area ritenuta a rischio” avrebbe determinato, quale automatica conseguenza, secondo quanto previsto dalle linee guida, in caso di emissione di bollettino meteonivologico con previsione di pericolo marcato, forte, molto forte, lo scattare della fase di allarme, che prevede che il sindaco dispone con propria ordinanza eventuali limitazioni nelle aree di pubblica circolazione, sugli impianti e nelle piste sciabili, sentita la commissione comunale per il rischio valanghe..., divenendo giocoforza l’hotel, in presenza di un bollettino con previsioni di pericolo almeno marcato, un edificio esposto all’imminente pericolo di caduta di valanga». È uno dei passaggi importanti dei motivi della sentenza di secondo grado (oltre 500 pagine)depositata dai giudici della Corte d’Appello dell’Aquila sulla valanga di Rigopiano del 18 gennaio 2017, quando persero la vita 29 persone. È la parte che riguarda l’isolamento dell’hotel, diventato una trappola mortale.
IL COMUNE DI FARINDOLA Un passaggio con il quale i giudici condannano anche il tecnico comunale Enrico Colangeli alla stessa pena (2 anni e 8 mesi) inflitta dal gup di Pescara in primo grado al sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta: «Analogamente è a dirsi anche per Colangeli, essendo stato», scrive la Corte, «redattore dell’originaria versione del piano di emergenza comunale, membro della commissione valanghe del Comune, ma soprattutto designato ab origine ed ancora incaricato dal sindaco Lacchetta di provvedere agli aggiornamenti del piano di emergenza con riferimento alla previsione del rischio valanghe».
Dopo aver chiuso le scuole, il sindaco Lacchetta per i giudici di secondo grado avrebbe dovuto chiudere anche l’hotel e «provvedere all’allontanamento dei soggetti in esso presenti e alla loro sistemazione in zone sicure». Mentre l'atteggiamento degli imputati per la Corte è stato «del tutto inerte, proseguendo nell’omettere di disporre finanche la convocazione della commissione valanghe (inattiva dal 2005, nonostante l’apertura dell’hotel anche nella stagione invernale nel 2007)».
LE NUOVE CONDANNE E nell’affermare anche la colpevolezza di Colangeli (insieme al sindaco), i giudici sottolineano che l’imputato «nulla faceva, così cooperando colposamente con Lacchetta, anche nei giorni dell'emergenza, protraendo la propria condotta colposamente inerte e così omettendo di porre in essere condotte sollecitatorie nei confronti del sindaco, affinchè emanasse l’ordinanza con riferimento all’hotel, così contribuendo a determinare in capo a Lacchetta un’ulteriore colposa rassicurazione circa la protrazione del suo atteggiamento inerte». Oltre a Colangeli, in appello sono arrivate altre due condanne (rispetto a quelle già decise in primo grado e confermate all’Aquila, e cioè del dirigente Paolo D’Incecco e del suo funzionario Mauro Di Blasio a 3 anni e 4 mesi ciascuno): quella dell’ex prefetto di Pescara Francesco Provolo (un anno e 8 mesi) e del suo capo di gabinetto, Leonardo Bianco (un anno e 4 mesi). Il processo in primo grado si era chiuso con 5 condanne (tre relative al disastro e due per violazioni urbanistiche della struttura) e 25 assoluzioni: condanne salite a 8 in appello.
L’EX PREFETTO La condanna riguarda il reato di falso che nulla ha a che fare, come ha evidenziato la Corte, con le altre accuse di concorso nelle morti e lesioni per le quali i due sono stati assolti. Il falso è relativo alla comunicazione al Ministero sull’apertura della sala operativa sin dal 16 gennaio 2017, mentre il Centro soccorsi venne aperto solo la mattina del 18 gennaio, giorno della tragedia. «Provolo», scrivono i giudici in sentenza, «non ebbe ad istituire gli organismi tassativamente previsti e regolamentati per fronteggiare le emergenze e, ciononostante, comunicò, nella piena consapevolezza della propria omissione, una difforme rappresentazione della realtà, ciò facendo al fine di fare apparire alle autorità destinatarie della sua nota il compimento di attività che non aveva compiuto, all’evidente scopo di celare l’inadeguatezza dell’ufficio dallo stesso diretto». La Corte, dissentendo dalla decisione del gup pescarese che lo aveva assolto, rimarca la sua responsabilità per l’omissione di atti d’ufficio e per il falso. La riunione del Cov del 16 gennaio per i giudici non aveva nulla a che fare con il centro coordinamento soccorsi che ha carattere permanente fino alla cessazione dell’emergenza. Il comitato viabilità riguardava la sola funzione della viabilità, mentre il Ccs si compone di 14 funzioni.
Il processo in primo grado si era chiuso con 5 condanne (tre relative al disastro e due per violazioni urbanistiche della struttura) e 25 assoluzioni: condanne salite a 8 in appello.
VALANGA IMPREVEDIBILE Viene ampiamente trattata la questione della imprevedibilità dell’evento valanghivo e della mancata realizzazione della Carta pericolo valanghe. «Non è dato ravvisare», scrivono i giudici, «in capo ai soggetti ai quali sono stati ascritti i delitti di cui ai capi 1 e 2 (disastro e morti e lesioni personali ndr), un comportamento colposo anche sotto il profilo della diligenza, e ciò in quanto, tenuto conto delle loro funzioni e competenze, non ricorrevano i presupposti per inferire una oggettiva pericolosità dell’area, tanto da imporre l’attivazione dei poteri sollecitatori». E qui la Corte punta il dito sul Coreneva: «Invero, deve rammentarsi come il Coreneva fosse organo di supporto tecnico-scientifico ad elevata specializzazione assegnato dalla legge di riferimento, non a caso composto da esperti del settore, che ben avrebbero potuto valutare la necessità di variare i parametri di localizzazione delle aree da sottoporre alla Carta valanghe in occasione dell'approvazione della Carta storica. Ebbene, la dedotta consapevolezza della indubitabile maggiore antropizzazione dell’area conseguente al rilascio dei provvedimenti autorizzatori relativi all’attività alberghiera, appare tutt’altro che dimostrata in capo agli imputati».
il E DEPISTAGGIO Sul depistaggio, in relazione alla “nascosta” telefonata di aiuto del cameriere dell’hotel Gabriele D'Angelo (tra le 29 vittime), la Corte è chiara: «Nessun elemento induce a dedurre che i dati significativi della chiamata di D’Angelo fossero stati apposti sul foglio ove risulta presente lo strappo»; e poi «la ipotizzata, da parte dell’accusa, preordinata volontà degli imputati tesa ad occultare agli inquirenti la chiamata di D’Angelo, mal si sposa con quanto posto in essere dalla Pontrandolfo e dal Verzella, ovvero con il loro essersi rivolti ai carabinieri, notiziandoli circa il fatto che, nella mattinata del 18 gennaio, era intervenuta una chiamata da parte di un ospite dell'hotel Rigopiano».
IL RICORSO Nella sentenza ci sono altri aspetti che verranno passati al vaglio della procura generale che dovrà valutare (probabilmente con l’aiuto dei magistrati pescaresi che hanno curato l’inchiesta, quali il procuratore Giuseppe Bellelli, i sostituti Anna Benigni e Andrea Papalia) gli elementi più idonei per uno scontato ricorso in Cassazione, così come faranno certamente le altre parti, prime fra tutte le difese degli imputati condannati.