"Lo chiamavo Emilio, era il mio amico"
Parla Marco Alessandrini: "Porto nelle scuole l’esempio di mio padre"
PESCARA. Non lo chiamava papà. Per lui, era semplicemente Emilio. «Lo chiamavo così, l’ho sempre chiamato così: chi ha studiato una certa sociologia familiare, sostiene che il padre non dev’essere amico del figlio. Ma io avevo con lui una grande complicità. E ho sempre pensato di avere perso un papà amico».
Marco Alessandrini, 41 anni, avvocato e consigliere comunale del Pd, dopo avere trattenuto nell’animo per tanti anni quella che gli sembrava «un’ingiustizia divina inspiegabile», ha imparato a raccontare suo padre da un incontro al liceo Classico, datato 30 gennaio 2005, con Mario Calabresi, primogenito del commissario ucciso nel 1972. Parlò dell’ultimo Natale insieme a Pescara, dei suoi capricci da bimbo di 8 anni per vedere Goldrake sulla tv a colori, del sorriso accondiscendente del padre. Sette anni dopo, il figlio del magistrato pescarese assassinato da Prima Linea nel 1979 lascia scivolare via i ricordi.
Come si sarebbe trovato suo padre oggi in questa magistratura sempre più nel mirino, accusata di eccessiva esposizione mediatica e di farsi tentare un po’ troppo dalla politica?
«Io penso che ciascuno di noi viva il proprio tempo. Emilio era un ragazzo degli anni 70. Se ne è andato in quel modo, a 36 anni... Penso che oggi che ne avrebbe 71 probabilmente guiderebbe qualche ufficio giudiziario. Avrebbe maturato una grande esperienza, ma se fosse rimasto a Milano come credo sarebbe stato etichettato come una toga rossa. Ma avrebbe continuato con entusiasmo il suo lavoro. Non ci sono riprove, ma me lo dicono i molti colleghi e amici di mio padre che ho conosciuto, come Armando Spataro (oggi a Pescara, ndr) e Gerardo D’Ambrosio, in pensione da 10 anni».
Chi era Emilio Alessandrini tra le mura di casa?
«Ricordo molto le partite a biliardino, le domeniche allo stadio, le passeggiate insieme, i racconti, le versioni romanzate dell’Odissea. E poi le domeniche allo stadio, i derby Inter-Milan e i capelli biondi di Buriani. Emilio era tifoso tiepido della Juventus. Un episodio che mi torna spesso in mente? Ho avuto la “fortuna” di perdere mio padre a 8 anni (Marco Alessandrini non lo dice, ma il riferimento è a chi ha perso il padre in tenerissima età come il figlio di Calabresi, che aveva 2 anni e mezzo quando il padre venne ucciso: ecco perché dice “fortuna”, ndr). Andavo a scuola e facevo la seconda o terza elementare. C’era un tale che telefonava sempre e annunciava che sarebbe esplosa una bomba. Però, era un telefonista molto maldestro e venne scoperto subito da mio padre che coordinava le indagini. Così, io da un lato provavo l’orgoglio di essere il figlio del magistrato che aveva scoperto il responsabile, ma dall’altro era un peccato perché noi bambini uscivamo da scuola e non facevamo lezione»
Lei è rimasto in silenzio per tanti anni, poi ha cominciato a trasmettere il ricordo di suo padre. Che cosa è successo?
«Come canta Bob Dylan i tempi stanno cambiando, io non sono più un bambino e in questi decenni è mutata la memoria del terrorismo: non più emergenza giudiziaria, ma storia del nostro Paese. Eppure, a Livorno un ex terrorista fa l’assessore, qualcun altro è stato in Parlamento. Faccio mio l’invito del presidente della Repubblica ad avere discrezione, misura, quando gli ex terroristi parlano. La libertà di pensiero è una grande conquista, ma senza ammiccamenti al passato».
Lei ha sempre dichiarato di avere il vizio della memoria? E Pescara ce l’ha nei confronti di suo padre?
«Sì, Pescara ha recuperato negli ultimi tempi. Stamattina mi ha telefonato il sindaco, mi ha detto “andiamo a deporre una corona di fiori”. In passato, la violenza ha avuto colorazioni politiche, ma il rosso del sangue è a destra come a sinistra. Non vogliamo, non possiamo e non dobbiamo dimenticare più quello che poteva essere e non è stato».
Oggi autorevoli magistrati arriveranno da tutt’Italia per commemora re suo padre.
«Ho visto che parteciperà l’avvocato Alessio Lanzi del foro di Milano. Non lo conosco personalmente, ma rimettendo a posto vecchie carte ho trovato una foto con lui e mio padre dell’estate del 1978. Si trovavano a un congresso in Brasile. Ma non so nulla di più...».
Ai ragazzi di oggi, come trasmette il suo esempio?
«Mi capita spesso di andare nelle scuole, lo avverto come un impegno doveroso. Torno sempre arricchito e non mi sfugge il lavoro di preparazione effettuato dai docenti. Conservo delle lettere straordinarie che mi hanno inviato i ragazzi dell’Itis Alessandrini dopo il nostro incontro. Cerco di spiegare che negli anni 70 chi faceva il proprio dovere, qualunque mestiere facesse – dal dirigente d’azienda al magistrato, dal politziotto al magistrato - rischiava la pelle. E che l’intossicazione ideologica è una brutta bestia, perché uno Stato che non funziona non va cambiato con la P38, ma con le idee, con la forza della democrazia e della nostra Costituzione, la più bella del mondo. L’invito che rivolgo ai ragazzi, e lo ribadisco in queste Giornate della memoria, è quello di approfondire quanto è successo negli anni 70, di essere curiosi. Di non mollare mai, come gridano loro allo stadio...».