«Abbiamo le potenzialità per rinascere»
L’Aquila. Intervista a Gabriele Lucci, fondatore dell’Accademia dell’Immagine
L’AQUILA. Fra le mani ha l’ultima fatica come direttore della Mondadori-Electa: il volume dal titolo «La commedia». Gabriele Lucci (nella foto), 59 anni, aquilano, è un’autorità internazionale dell’arte cinematografica. Amico di registi, attori, sceneggiatori, direttori della fotografia, compositori (a partire da Morricone) Lucci dal 6 aprile ha girato l’Italia con un obiettivo: salvare quel patrimonio culturale aquilano che è l’Accademia dell’Immagine.
Nei giorni successivi al sisma di fronte a una città distrutta e con le persone in fuga qual è stata la sua prima riflessione.
«Il sisma ha cancellato vite e distrutto case ma è stato anche un terremoto dell’anima. La perdita dei luoghi della propria vita, dei punti di riferimento rischiano di disorientare, di non far ritrovare il senso della propria esistenza e questo può indurre o alla depressione oppure alla fuga dall’Aquila. Sarebbe una nuova catastrofe».
Tra l’altro tutto ciò è avvenuto in una città considerata chiusa in sé stessa, diffidente verso l’esterno.
«Che L’Aquila oggi debba aprirsi verso l’esterno è una fatto incontrovertibile. In questi mesi post sisma ho partecipato a una serie di iniziative quasi tutte fuori regione con due obiettivi: quello di evitare una sorta di isolamento istituzionale e ricollocare l’Accademia dell’Immagine al centro dell’attenzione nazionale e internazionale. E si badi bene, in Italia e potrei dire anche nel mondo c’è grande interesse per quello che di buono si è fatto e si fa all’Aquila. Oggi tocca a noi dimostrare che siamo capaci di mettere a frutto gli aiuti ricevuti».
L’esperienza del passato non ci porta a grande ottimismo su questo.
«Io posso parlare della mia esperienza personale. Alla fine degli anni Settanta creammo con l’amico Massimo Turco uno dei primi cineclub abruzzesi “Primo piano”. E a seguire sono nate la Lanterna magica, la Città in Cinema, l’Accademia dell’Immagine. Ma alcune di quelle cose o non ci sono più o sono in difficoltà. Questa è una città in cui i politici pensano a fare solo inaugurazioni ma poi nessuno pensa alla cosiddetta manutenzione. Anche le cose più belle dopo pochi anni finiscono per sparire».
E questo secondo lei dipende da un particolare carattere degli aquilani?
«Io credo che ci sia una sorta di forza che potrei definire autodistruttrice. Se c’è una cosa bella, che vale, si fa in modo da metterla in ombra. E poi c’è sempre un assunto in base al quale “L’Aquila ha un grande passato dietro le spalle” il che è vero ma non si può andare avanti con la testa voltata all’indietro».
Ci sono colpe in tutto questo?
«Non vorrei fare quello che butta la croce addosso ai politici, ma credo che da parte loro ci sia stata e ci sia una grossa responsabilità».
Oggi, dopo il terremoto, lei pensa che qualcosa sia cambiato?
«Come ha detto su queste pagine il direttore del Conservatorio, l’amico Bruno Carioti, il concerto per coro e orchestra che ha visto protagonista il maestro Muti, è stata la dimostrazione della grande potenzialità che questa città ha dal punto di vista musicale. Dunque quando parlo di eliminare la diffidenza mi riferisco sia all’esterno ma anche dentro la città. Quello che io ancora non vedo, ma spero che presto qualcosa possa cambiare, è una strategia per il futuro».
Lei che gira il mondo e parla con tante persone: che opinione c’è dell’Aquila fuori dall’Aquila.
«E’ vero - e qui mi permetto di citare ancora Carioti - che L’Aquila dal punto di vista culturale è molto apprezzata all’estero. Però vorrei fare un esempio per spiegare meglio il concetto: noi nel panorama mondiale siamo visti come un punto luminoso, che quindi è capace di attrarre attenzione. Ma quel punto luminoso è ancora troppo flebile. Tocca a noi farlo diventare qualcosa di più importante. Il terremoto ci ha messo, nostro malgrado, al centro della comunità internazionale. Ora noi dobbiamo mettere a frutto questa attenzione dimostrando che grazie agli aiuti che sono giunti da ogni parte noi siamo stati in grado di ricostruire una città non solo dal punto di vista materiale».
Qual è oggi la situazione dell’Accademia dell’Immagine?
«Innanzitutto c’è stato un grosso lavoro sin dai giorni seguenti al sisma. La nostra sede a Collemaggio è fortemente danneggiata e penso che vada abbattuta e ricostruita. Abbiamo avuto uno spazio nella sede della caserma della Finanza, abbiamo salvato tutto il nostro patrimonio culturale - a partire dalla cineteca che ha migliaia di titoli - e oggi si sta discutendo proprio sul futuro».
E quale può essere la prima iniziativa per evitare che anche l’Accademia sparisca dalla città?
«Proprio pochi giorni fa abbiamo avuto un incontro molto costruttivo con il presidente della giunta regionale Gianni Chiodi e a lui abbiamo prospettato l’esigenza che l’Accademia non sia considerato solo ente culturale ma che possa fare anche formazione, cosa che tra l’altro già fa visto che si tratta di una scuola a tutti gli effetti. Ma essere riconosciuti dalla Regione come ente di formazione permetterebbe di accedere a fondi - e mi riferisco in particolare a fondi europei - che ne garantirebbero lo sviluppo».
Tornando alla ricostruzione, lei che cosa farebbe come prima cosa per salvagurdare il patrimonio culturale cittadino?
«Credo che innanzitutto vada fatto un censimento di quello che c’è, e non parlo solo della cultura ma anche dello sport, dell’artigianato, del volontariato e quant’altro. Una volta fatta questa ricognizione vanno trovate le risorse - intercettando i fondi attraverso vari canali - e la forza di volontà per mantenere in vita quello che c’è e migliorarlo. Tutto questo in base alla solita domanda: cosa vogliamo fare da grandi?»
Nei giorni successivi al sisma di fronte a una città distrutta e con le persone in fuga qual è stata la sua prima riflessione.
«Il sisma ha cancellato vite e distrutto case ma è stato anche un terremoto dell’anima. La perdita dei luoghi della propria vita, dei punti di riferimento rischiano di disorientare, di non far ritrovare il senso della propria esistenza e questo può indurre o alla depressione oppure alla fuga dall’Aquila. Sarebbe una nuova catastrofe».
Tra l’altro tutto ciò è avvenuto in una città considerata chiusa in sé stessa, diffidente verso l’esterno.
«Che L’Aquila oggi debba aprirsi verso l’esterno è una fatto incontrovertibile. In questi mesi post sisma ho partecipato a una serie di iniziative quasi tutte fuori regione con due obiettivi: quello di evitare una sorta di isolamento istituzionale e ricollocare l’Accademia dell’Immagine al centro dell’attenzione nazionale e internazionale. E si badi bene, in Italia e potrei dire anche nel mondo c’è grande interesse per quello che di buono si è fatto e si fa all’Aquila. Oggi tocca a noi dimostrare che siamo capaci di mettere a frutto gli aiuti ricevuti».
L’esperienza del passato non ci porta a grande ottimismo su questo.
«Io posso parlare della mia esperienza personale. Alla fine degli anni Settanta creammo con l’amico Massimo Turco uno dei primi cineclub abruzzesi “Primo piano”. E a seguire sono nate la Lanterna magica, la Città in Cinema, l’Accademia dell’Immagine. Ma alcune di quelle cose o non ci sono più o sono in difficoltà. Questa è una città in cui i politici pensano a fare solo inaugurazioni ma poi nessuno pensa alla cosiddetta manutenzione. Anche le cose più belle dopo pochi anni finiscono per sparire».
E questo secondo lei dipende da un particolare carattere degli aquilani?
«Io credo che ci sia una sorta di forza che potrei definire autodistruttrice. Se c’è una cosa bella, che vale, si fa in modo da metterla in ombra. E poi c’è sempre un assunto in base al quale “L’Aquila ha un grande passato dietro le spalle” il che è vero ma non si può andare avanti con la testa voltata all’indietro».
Ci sono colpe in tutto questo?
«Non vorrei fare quello che butta la croce addosso ai politici, ma credo che da parte loro ci sia stata e ci sia una grossa responsabilità».
Oggi, dopo il terremoto, lei pensa che qualcosa sia cambiato?
«Come ha detto su queste pagine il direttore del Conservatorio, l’amico Bruno Carioti, il concerto per coro e orchestra che ha visto protagonista il maestro Muti, è stata la dimostrazione della grande potenzialità che questa città ha dal punto di vista musicale. Dunque quando parlo di eliminare la diffidenza mi riferisco sia all’esterno ma anche dentro la città. Quello che io ancora non vedo, ma spero che presto qualcosa possa cambiare, è una strategia per il futuro».
Lei che gira il mondo e parla con tante persone: che opinione c’è dell’Aquila fuori dall’Aquila.
«E’ vero - e qui mi permetto di citare ancora Carioti - che L’Aquila dal punto di vista culturale è molto apprezzata all’estero. Però vorrei fare un esempio per spiegare meglio il concetto: noi nel panorama mondiale siamo visti come un punto luminoso, che quindi è capace di attrarre attenzione. Ma quel punto luminoso è ancora troppo flebile. Tocca a noi farlo diventare qualcosa di più importante. Il terremoto ci ha messo, nostro malgrado, al centro della comunità internazionale. Ora noi dobbiamo mettere a frutto questa attenzione dimostrando che grazie agli aiuti che sono giunti da ogni parte noi siamo stati in grado di ricostruire una città non solo dal punto di vista materiale».
Qual è oggi la situazione dell’Accademia dell’Immagine?
«Innanzitutto c’è stato un grosso lavoro sin dai giorni seguenti al sisma. La nostra sede a Collemaggio è fortemente danneggiata e penso che vada abbattuta e ricostruita. Abbiamo avuto uno spazio nella sede della caserma della Finanza, abbiamo salvato tutto il nostro patrimonio culturale - a partire dalla cineteca che ha migliaia di titoli - e oggi si sta discutendo proprio sul futuro».
E quale può essere la prima iniziativa per evitare che anche l’Accademia sparisca dalla città?
«Proprio pochi giorni fa abbiamo avuto un incontro molto costruttivo con il presidente della giunta regionale Gianni Chiodi e a lui abbiamo prospettato l’esigenza che l’Accademia non sia considerato solo ente culturale ma che possa fare anche formazione, cosa che tra l’altro già fa visto che si tratta di una scuola a tutti gli effetti. Ma essere riconosciuti dalla Regione come ente di formazione permetterebbe di accedere a fondi - e mi riferisco in particolare a fondi europei - che ne garantirebbero lo sviluppo».
Tornando alla ricostruzione, lei che cosa farebbe come prima cosa per salvagurdare il patrimonio culturale cittadino?
«Credo che innanzitutto vada fatto un censimento di quello che c’è, e non parlo solo della cultura ma anche dello sport, dell’artigianato, del volontariato e quant’altro. Una volta fatta questa ricognizione vanno trovate le risorse - intercettando i fondi attraverso vari canali - e la forza di volontà per mantenere in vita quello che c’è e migliorarlo. Tutto questo in base alla solita domanda: cosa vogliamo fare da grandi?»