Baglioni, formidabili anni ’70
Il musicista romano si racconta prima del concerto alla Civitella.
Claudio Baglioni torna in Abruzzo per il Qpga (Questo piccolo grande amore) tour. L’unica tappa è in programma questa sera, con inizio alle 21,30 alla Civitella di Chieti (si veda riquadro in basso).
Baglioni ha rilasciato al Centro l’intervista esclusiva che segue.
Qpga è un progetto multimediale. Sicuramente inusuale per il panorama musicale italiano. Come lo ha immaginato? Da quale idea è partito?
«Veramente è un’idea nata molti anni fa. Anzi: è l’idea originale. Sin dall’inizio, “Questo piccolo grande amore” è sempre stato molto più di un semplice disco. La prima volta che l’ho presentato alla casa discografica, l’ho fatto sotto forma di racconto. Una sorta di “soggetto cinematografico”. La struttura del progetto andava ben al di là di un lp. Ma ero un esordiente. Il concept album avrebbe dovuto essere doppio, ma la casa discografica non se la sentì di rischiare, le canzoni vennero limitate a 15 e il resto si perse per strada. Poi, il successo. Tanto inatteso, quanto clamoroso. Con una titletrack così fortunata da azzerare tutto il resto. Da allora, l’idea di rimettere mano al progetto per liberarlo dallo strapotere di una sola canzone e restituirgli il respiro e la profondità originali ha continuato a stuzzicarmi. E’ da questa amorevole persecuzione che è nata l’idea del cosiddetto quadrigetto: un romanzo che raccontasse ciò che un disco non avrebbe mai potuto raccontare; un film che restituisse l’atmosfera di quella stagione a cavallo tra il sogno della summer of love e l’incubo degli anni di piombo; un tour che, finalmente, mettesse in scena quella che ha tutte le caratteristiche di un’opera popolare moderna, e un disco (doppio, questa volta), che recuperasse tutta la musica che era stata sacrificata allora, ma ospitasse anche tutta quella che la storia di Giulia e Andrea aveva continuato ad ispirare nel corso degli anni».
Qpga è un romanzo, molto autobiografico. Quanto Claudio Baglioni c’è nel personaggio di Andrea? Quanta parte della sua vita vera? Quanta parte della vita che lei avrebbe voluto vivere?
«Tanto. Anche se non bisogna mai confondere “scrittura” e “realtà”. La scrittura si ispira alla realtà, ma non genera realtà. Resta invenzione. Finzione. Tutti vivono un primo grande amore. Dallo “stato di grazia” dell’innamoramento, fino a quello di “disgrazia” della separazione. Dalla passione intesa come grande amore, alla passione intesa come grande sofferenza. E’ una delle esperienze più preziose e importanti dell’esistere. Ed è bene viverla con il massimo della verità e dell’intensità. Ma nel romanzo non c’è solo questo. C’è l’aria di quegli anni. Straordinaria. Irripetibile, purtroppo. Quella fu, probabilmente, l’ultima volta che il mondo intero sognò insieme. Un grande sogno di libertà, di pace, di amore, nel senso più alto e largo della parola. Erano gli anni di All you need is love, del Vietnam e della Primavera di Praga; dell’eco delle grandi parole di Kennedy o di Luther King; della rivoluzione studentesca e dello sbarco sulla Luna, di cui il mondo celebra in questi giorni il 40º anniversario. Ma erano soprattutto gli anni dei giovani. Una generazione che, per la prima volta, prendeva coscienza di sé. Della forza di essere in grado di imporre le proprie idee, le proprie parole, il proprio modo di vestire, la propria musica. I propri valori. Io, come Andrea, ero uno di quei giovani. E, per la prima volta, assaporavo l’inebriante sensazione che la vita fosse lì per me e che bastasse allungare la mano per prenderla e farla mia. Qpga è anche questo. Il sogno di conquistare la vita e la lotta per prendersela. Entrambi vissuti attraverso la lente deformante di una periferia ingenua, sbruffona, ma col cuore grande nella quale la grande storia arrivava forse con un po’ di ritardo, ma non dimenticava mai di lasciar cadere i suoi frutti».
Nelle numerose interviste che lei ha rilasciato al Centro ha raccontato che la parlata pescarese per lei è molto familiare, vuol ricordarlo?
«Ero bambino. I miei avevano legato con i vicini di casa. Una famiglia di Pescara. L’ho ricordata in “51 Montesacro”, un brano inserito nell’album “Strada facendo”. Era lei “la vicina quella dell’Abruzzo”. Mi ero affezionato a lei e al suo accento, che per me aveva qualcosa di esotico, nel modo privo di riserve nel quale si affezionano i bambini. Da allora, quella cadenza è rimasta legata per sempre alla stagione incantata dell’infanzia, quando il mondo si imprime per la prima volta nelle carte assorbenti di occhi e cuore e tutto assume colori e sapori particolari».
L’Aquila e i paesi del circondario provano a uscire da una terribile prova, il terremoto del 6 aprile. Cosa può fare la musica?
«Tenere accesa la luce della coscienza e alta l’attenzione delle responsabilità. Non solo nella fase immediata dell’emergenza, ma anche in quella - più lunga - nella quale le comunità abruzzesi ferite dovranno essere messe in condizione di ritornare ad una esistenza “normale” e il più possibile serena. Il problema, infatti, non è solamente quello di ricostruire materialmente i centri danneggiati dal sisma, ma, soprattutto, quello di ricostruire il morale delle comunità e restituire loro fiducia nel futuro. Come dicono Giulia e Andrea: è il futuro l’unico vero antidoto al presente».
Baglioni ha rilasciato al Centro l’intervista esclusiva che segue.
Qpga è un progetto multimediale. Sicuramente inusuale per il panorama musicale italiano. Come lo ha immaginato? Da quale idea è partito?
«Veramente è un’idea nata molti anni fa. Anzi: è l’idea originale. Sin dall’inizio, “Questo piccolo grande amore” è sempre stato molto più di un semplice disco. La prima volta che l’ho presentato alla casa discografica, l’ho fatto sotto forma di racconto. Una sorta di “soggetto cinematografico”. La struttura del progetto andava ben al di là di un lp. Ma ero un esordiente. Il concept album avrebbe dovuto essere doppio, ma la casa discografica non se la sentì di rischiare, le canzoni vennero limitate a 15 e il resto si perse per strada. Poi, il successo. Tanto inatteso, quanto clamoroso. Con una titletrack così fortunata da azzerare tutto il resto. Da allora, l’idea di rimettere mano al progetto per liberarlo dallo strapotere di una sola canzone e restituirgli il respiro e la profondità originali ha continuato a stuzzicarmi. E’ da questa amorevole persecuzione che è nata l’idea del cosiddetto quadrigetto: un romanzo che raccontasse ciò che un disco non avrebbe mai potuto raccontare; un film che restituisse l’atmosfera di quella stagione a cavallo tra il sogno della summer of love e l’incubo degli anni di piombo; un tour che, finalmente, mettesse in scena quella che ha tutte le caratteristiche di un’opera popolare moderna, e un disco (doppio, questa volta), che recuperasse tutta la musica che era stata sacrificata allora, ma ospitasse anche tutta quella che la storia di Giulia e Andrea aveva continuato ad ispirare nel corso degli anni».
Qpga è un romanzo, molto autobiografico. Quanto Claudio Baglioni c’è nel personaggio di Andrea? Quanta parte della sua vita vera? Quanta parte della vita che lei avrebbe voluto vivere?
«Tanto. Anche se non bisogna mai confondere “scrittura” e “realtà”. La scrittura si ispira alla realtà, ma non genera realtà. Resta invenzione. Finzione. Tutti vivono un primo grande amore. Dallo “stato di grazia” dell’innamoramento, fino a quello di “disgrazia” della separazione. Dalla passione intesa come grande amore, alla passione intesa come grande sofferenza. E’ una delle esperienze più preziose e importanti dell’esistere. Ed è bene viverla con il massimo della verità e dell’intensità. Ma nel romanzo non c’è solo questo. C’è l’aria di quegli anni. Straordinaria. Irripetibile, purtroppo. Quella fu, probabilmente, l’ultima volta che il mondo intero sognò insieme. Un grande sogno di libertà, di pace, di amore, nel senso più alto e largo della parola. Erano gli anni di All you need is love, del Vietnam e della Primavera di Praga; dell’eco delle grandi parole di Kennedy o di Luther King; della rivoluzione studentesca e dello sbarco sulla Luna, di cui il mondo celebra in questi giorni il 40º anniversario. Ma erano soprattutto gli anni dei giovani. Una generazione che, per la prima volta, prendeva coscienza di sé. Della forza di essere in grado di imporre le proprie idee, le proprie parole, il proprio modo di vestire, la propria musica. I propri valori. Io, come Andrea, ero uno di quei giovani. E, per la prima volta, assaporavo l’inebriante sensazione che la vita fosse lì per me e che bastasse allungare la mano per prenderla e farla mia. Qpga è anche questo. Il sogno di conquistare la vita e la lotta per prendersela. Entrambi vissuti attraverso la lente deformante di una periferia ingenua, sbruffona, ma col cuore grande nella quale la grande storia arrivava forse con un po’ di ritardo, ma non dimenticava mai di lasciar cadere i suoi frutti».
Nelle numerose interviste che lei ha rilasciato al Centro ha raccontato che la parlata pescarese per lei è molto familiare, vuol ricordarlo?
«Ero bambino. I miei avevano legato con i vicini di casa. Una famiglia di Pescara. L’ho ricordata in “51 Montesacro”, un brano inserito nell’album “Strada facendo”. Era lei “la vicina quella dell’Abruzzo”. Mi ero affezionato a lei e al suo accento, che per me aveva qualcosa di esotico, nel modo privo di riserve nel quale si affezionano i bambini. Da allora, quella cadenza è rimasta legata per sempre alla stagione incantata dell’infanzia, quando il mondo si imprime per la prima volta nelle carte assorbenti di occhi e cuore e tutto assume colori e sapori particolari».
L’Aquila e i paesi del circondario provano a uscire da una terribile prova, il terremoto del 6 aprile. Cosa può fare la musica?
«Tenere accesa la luce della coscienza e alta l’attenzione delle responsabilità. Non solo nella fase immediata dell’emergenza, ma anche in quella - più lunga - nella quale le comunità abruzzesi ferite dovranno essere messe in condizione di ritornare ad una esistenza “normale” e il più possibile serena. Il problema, infatti, non è solamente quello di ricostruire materialmente i centri danneggiati dal sisma, ma, soprattutto, quello di ricostruire il morale delle comunità e restituire loro fiducia nel futuro. Come dicono Giulia e Andrea: è il futuro l’unico vero antidoto al presente».