«Bobbio, maestro di libertà»
Pubblichiamo il discorso pronunciato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alla cerimonia in occasione del centenario della nascita di Norberto Bobbio, ieri a Torino.
Vorrei che questo mio intervento fosse inteso come semplice testimonianza personale di un apprendimento e di un dialogo. Un apprendimento, innanzitutto ma non semplice, aggiungo, non facile: perché la lezione che Norberto Bobbio poteva offrire a chi si inoltrasse sulla via dell’impegno nella sinistra politica a cavallo tra gli anni ’40 e ’50 giungeva controcorrente, in antitesi a posizioni prevalenti in quel campo. Posizioni in cui si rifletteva l’asprezza che la lotta politica stava raggiungendo in Italia, dopo la rottura dell’unità tra le forze antifasciste e dopo le elezioni del 1948 che avevano segnato una drastica contrapposizione tra l’alleanza di centro e la sinistra. Un’asprezza inseparabile da quella della guerra fredda che andava dividendo drasticamente il mondo in due blocchi, dei quali va ricordata la forte connotazione ideologica.
Ai rischi fatali di antitesi e fratture, ben al di là dei confini italiani, si opponeva da parte di Bobbio l’“invito al colloquio”: al colloquio per lo meno egli scrisse nel 1951 tra gli uomini di cultura. Nella sinistra italiana tendevano, in quei primi anni ’50, a pesare sempre di più dottrinarismi e schematismi ideologici, in stretto rapporto con una scelta di campo nel confronto mondiale tra i due blocchi. Ma Bobbio ricercò con straordinaria apertura e sapienza il colloquio con uomini di cultura come Ranuccio Bianchi Bandinelli o Galvano della Volpe, rallegrandosi poi del fatto che nel dibattito fosse intervenuto anche Roderigo di Castiglia, come amava firmarsi Palmiro Togliatti. Sto parlando, com’è chiaro, della straordinaria serie di scritti in cui s’impegnò Bobbio tra il 1951 e il 1954 partendo dall’incontro con Umberto Campagnolo e con la Società Europea di Cultura e che furono quindi raccolti nel volume “Politica e cultura”.
E la testimonianza che posso dare è quella della difficoltà di un giovane ormai già schierato e interamente impegnato nel partito comunista, lettore della rivista Società o de Il Contemporaneo e naturalmente di Rinascita, a intendere la lezione di Bobbio. Lezione fondamentale in tema di libertà di libertà della cultura e di libertà in generale. La difficoltà nasceva naturalmente da un’adesione acritica alle tesi sostenute dai vertici del partito, ma anche, si può dire, da un’implicita convinzione che le questioni della libertà fossero state risolte nei fatti dalla vittoria sul fascismo e fossero state regolate nel modo più impegnativo ed esauriente con la definizione della Costituzione repubblicana. La polemica di Bobbio interveniva, invece, a sollevare interrogativi di fondo, a seminare dubbi, a proporre argomenti complessi, e a farlo dal punto di vista di un uomo di pensiero, di uno studioso portatore di molteplici valori politici, come ha scritto di recente Revelli liberalismo, democrazia, socialismo, federalismo che avevano caratterizzato da “ircocervo” il Partito d’Azione.
Non era dunque in nome di un bagaglio ideale ostile alla sinistra, era piuttosto in nome di un dichiarato interesse positivo per le sorti del movimento operaio e della sinistra, che Bobbio sviluppava il suo discorso, si rivolgeva a quegli interlocutori. Era un discorso volto a contestare una serie di semplificazioni e contrapposizioni fuorvianti libertà sostanziale, “di fatto”, “vera”, contro libertà giuridica o formale, libertà socialista contro libertà borghesi; un discorso, quello di Bobbio, volto a contestare la riduzione del concetto di libertà a quello di potere, cioè di potere di esercitare un diritto altrimenti astratto, e quindi la negazione del valore della libertà come non impedimento. Dietro le posizioni teoriche che Bobbio metteva drasticamente in questione, si manifestava in una parte della sinistra un’accentuata, prioritaria sensibilità per esigenze sociali e obbiettivi di riforma delle strutture economiche, ma si coglieva anche, e chiaramente, la difesa, l’idoleggiamento delle conquiste rivoluzionarie delle società dell’Est.
Di qui l’affermazione nettissima, da parte di Bobbio, della necessità, egli scrisse, che “qualunque sia la classe sociale che tenga le chiavi del potere, essa non governi dispoticamente e totalitariamente, ma assicuri all’individuo una sfera più o meno larga di attività non controllate, non dirette, non ossessivamente imposte”.... La passione che aveva nel passato animato parole di Bobbio la battaglia liberale contro il dispotismo si era tradotta in istituzioni e principi che egli esortava la sinistra a valorizzare pienamente: la garanzia dei diritti di libertà primo fra questi la libertà di pensiero e di stampa la divisione dei poteri, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche; la distinzione delle funzioni al servizio del principio di legalità; la distinzione degli organi dello Stato al servizio del principio di imparzialità.
Questo messaggio liberale di Bobbio si integrava peraltro con la valorizzazione da parte sua della democratizzazione dei regimi liberali, con l’impegno per la causa dell’uguaglianza, della giustizia e del progresso sociale. Un impegno che egli avrebbe, decenni più tardi, riaffermato con particolare forza all’indomani della caduta del comunismo. La componente socialista della sua identità di pensiero e politica era innegabile, confermata nei fatti dalla sua collaborazione col partito che incarnava quella tradizione. Nonostante ciò, la sua lezione torno alla prima metà degli anni ’50 non veniva facilmente recepita: né dai massimi custodi dell’ideologia e delle scelte politiche di fondo della forza maggiore della sinistra italiana, quella comunista, né da generazioni più giovani di militanti e di intellettuali.
Il paradosso stava nel fatto che la lotta politica nel paese, nei suoi termini concreti, spingeva più che mai la sinistra di opposizione a impugnare la bandiera della Costituzione repubblicana, della libertà e quindi di principi e diritti che nello stesso tempo si insisteva sul piano dottrinario a sottovalutare o relativizzare. Ma la forza di persuasione di un messaggio come quello di Bobbio e la forza di fatti traumatici come il ventesimo congresso del partito sovietico, cominciarono ad aprire delle brecce, a imporre delle revisioni, a cui altre sarebbero seguite negli anni e nei decenni successivi. Fu un’evoluzione lenta, faticosa, e quella lentezza, con il suo contorno di ambiguità, sarebbe stata pagata dalla sinistra e dal paese. Per me personalmente, apprendere la lezione di Bobbio fu determinante, anche perché mi sarebbe poi apparsa condurre verso l’orizzonte della socialdemocrazia europea.
Ne trassi, soprattutto, idee-guida, ispirazioni e valori che sarebbero andati molto al di là di riflessioni ed esperienze interne a una parte politica, per sfociare in una visione più matura dei problemi della democrazia italiana e delle sue istituzioni. Problemi che emersero nella stagione di cui pure, come ho detto all’inizio, desidero oggi dare testimonianza del mio dialogo più diretto e ravvicinato con Norberto Bobbio. Quel dialogo si infittì a partire dall’inizio degli anni ’80, dopo la scomparsa di un mio essenziale punto di riferimento politico, e interlocutore privilegiato di Bobbio, Giorgio Amendola. Giorgio non solo apparteneva alla stessa generazione di Norberto, ma era “molto legato” come qualche anno dopo la sua morte Bobbio ricordò “alla tradizione antifascista torinese”, e non cancellò mai del tutto dalla sua formazione il filone di liberalismo democratico impersonato da Piero Gobetti, né tantomeno “l’insegnamento di suo padre, che di quella corrente di democrazia liberale era stato” (scrisse sempre Bobbio) “un teorico e un coraggioso combattente”.
Io, pur appartenendo a una generazione molto più giovane e non avendo “titoli storici” per dialogare con Norberto Bobbio, cercai quel dialogo in nome del crescente rilievo, ormai, delle mie responsabilità politico-istituzionali e in continuità con quel precedente processo di faticoso apprendimento di cui ho parlato poc’anzi. E mi trovai a mio agio, così come nel dialogo con altri di me più anziani per fare un solo nome, Altiero Spinelli. Mi trovai a mio agio per un motivo che credo possa considerarsi fondato e che è questo: ci sono tra una generazione e l’altra, spesso, profonde cesure, ma non così tra la generazione di quanti vedemmo cadere il fascismo e concludersi la guerra, e l’Italia pagare il prezzo terribile della dittatura, del conflitto più distruttivo e della sconfitta, e la generazione che si era formata negli anni ’20 e temprata nell’antifascismo, la meravigliosa generazione dei maestri e compagni di Norberto Bobbio.
Non ci fu cesura tra le nostre generazioni, ma saldatura ideale come raramente accade, e possibilità di dialogo nella misura consentita dalle vicende della vita e della morte dei singoli. Così, scelsi di sollecitare Bobbio a scambiarci opinioni su vicende politico-parlamentari e poi, nel corso di tutti gli anni ’80, sempre di più, sul travaglio in atto nella sinistra italiana e sull’esito cui esso avrebbe potuto auspicabilmente giungere. Nel luglio del 1984 Bobbio era stato nominato dal Presidente Pertini senatore a vita, e avevamo così occasione di incontrarci anche a Montecitorio quando il Parlamento si riuniva in seduta comune (ad esempio, nel 1985, per l’elezione del Presidente della Repubblica, che sfiorò anche la persona di Bobbio). All’indomani di quella nomina, egli mi scrisse del disagio di dover “prendere una parte più attiva alla vita politica, che mi pare sempre più caotica e nella quale non so bene che parte prendere”. In realtà, egli sapeva che lo sbocco cui tendere era quello di una democrazia dell’alternanza anche in Italia e che ciò presupponeva un polo di sinistra rappresentato da quel grande partito riformista di stampo socialdemocratico europeo di cui lamentava la mancanza.
Ne discutemmo insieme qui a Torino nel marzo del 1982 in un bel convegno che vide in sostanza convergere le nostre posizioni, com’egli più tardi ricordò nella sua Autobiografia. L’obbiettivo era reso ancora arduo dallo stato dei rapporti tra i due maggiori partiti della sinistra, e Bobbio si esprimeva criticamente su entrambi, e anche dopo la svolta del 1989 nel PCI, ne parlava come di”un mulo cocciuto” che si fermava nel momento in cui avrebbe potuto raccogliere i frutti se ne avesse tratto tutte le conseguenze dalla sua marcia di avvicinamento al socialismo democratico europeo. Condividevamo largamente, insomma, giudizi ed auspici; e infine gli scrissi alla vigilia delle elezioni del 1992 mi ritrovai vicino al suo “sconforto storico” per il fatale riprodursi, senza quasi più speranza di superarla, della contrapposizione tra i due partiti. Già qualche anno prima, accusando stanchezza e depressione, mi aveva scritto: “Non ho mai avuto grande passione politica, intendo per la politica attiva, ora mi è passata del tutto”.
Ma quale fosse la sua passione civile, e la sua capacità di scendere in campo politicamente quando apparissero in giuoco le sorti dell’Italia, lo aveva mostrato e come! dinanzi all’attacco eversivo del terrorismo brigatista, e lo mostrò dinanzi alla crisi istituzionale del 1992-93. Qualcosa di simile alla passione civile e allo sgomento per le sorti della nazione che mossero Benedetto Croce a intervenire eccezionalmente nella vicenda politica dopo il crollo del ’43, nell’“Italia divisa in due”. Nella crisi del 1992-93 Bobbio si schierò attivamente per la riforma elettorale e costituzionale. Ne discutemmo all’Università di Torino nel maggio del 1993 (ero allora Presidente della Camera). “Riforma costituzionale”, egli disse in quell’occasione, “a partire dalla Costituzione presente”; “processo riformatore da condurre in Parlamento con metodo democratico”, aggiunse ironizzando sulla formula “rivoluzione costituzionale” agitata da un altro studioso.
Già in precedenza, quando ragionavamo sulle prospettive della sinistra, egli aveva indicato come motivo di dialogo serio tra quei partiti le riforme costituzionali, rispetto alle quali “non si poteva negare” osservò “che Craxi fosse stato un precursore”. Nel ’94 anche il progetto di riforma della Commissione Iotti abortì; egli, che aveva condiviso la mia diagnosi di una”impotenza a riformare” come male oscuro e grave della democrazia italiana, tornò a rilanciare tuttavia la sfida del cambiamento, ribadendo: “Guai a noi se daremo l’impressione di essere fedeli alla Costituzione sino a considerarla intoccabile” senza distinguere tra la sua prima e la sua seconda parte. Al di là delle problematiche e degli avvenimenti cui mi sono riferito finora, rilevo come certi accenti che ritrovo nel Bobbio di allora conservino una loro attualità.
E per quanto diversi siano i soggetti politici oggi in competizione e in contrasto rispetto a quelli del periodo in cui ci scrivevamo e discorrevamo con Bobbio, posso mi chiedo ripetere le sue parole di una lettera del ’92: “ci vorrebbe un po’ di equilibrio da parte di tutti”? Sono parole, se ripetute ora, destinate a lasciare il tempo che trovano? Fare, non dico “l’elogio della mitezza”, ma il più naturale appello al senso della misura, al confronto costruttivo, al rispetto delle istituzioni e alla considerazione dell’interesse comune, è dunque solo un dar prova d’ingenuità? Ebbene, fosse pure questo, io non desisterò dal mio appello, rivolto come sempre in tutte le direzioni. E sono convinto che molti italiani, al di là delle loro diverse, libere scelte elettorali, lo condividano, ne avvertano la necessità.
Le questioni politiche e ideali in cui eravamo coinvolti, ciascuno a suo modo, discutendone io e Bobbio tra di noi e con altri, più di vent’anni fa o giù di lì, mi appaiono ormai lontanissime, da tempo, per così dire, passate in giudicato. Naturalmente, quella è stata la mia storia: una storia non rimasta eguale al punto di partenza, ma passata attraverso decisive evoluzioni della realtà internazionale e nazionale e attraverso personali, profonde, dichiarate revisioni. Da quel contesto mi sono via via distaccato quanto più ero chiamato ad assumere ruoli non di parte, a farmi carico dei problemi delle istituzioni che regolano la nostra vita democratica, i diritti e i doveri dei cittadini. L’approccio partigiano, naturale in chi fa politica, è qualcosa di cui ci si spoglia in nome di una visione più ampia.
Tutti i miei predecessori a cominciare, nel primo settennato, da Luigi Einaudi avevano ciascuno la propria storia politica: sapevano, venendo eletti Capo dello Stato, di doverla e poterla non nascondere, ma trascendere. Così come ci sono stati Presidenti della Repubblica eletti in Parlamento da una maggioranza che coincideva con quella di governo, talvolta ristretta o ristrettissima, o da una maggioranza eterogenea, e contingente. Ma nessuno di loro se ne è fatto condizionare. Quella del Capo dello Stato “potere neutro”, al di sopra delle parti, fuori della mischia politica, non è una finzione, è la garanzia di moderazione e di unità nazionale posta consapevolmente nella nostra Costituzione come in altre dell’Occidente democratico. Per quante tensioni e difficoltà comporti l’adempiere un simile mandato, proseguirò nell’esercizio sereno e fermo dei miei doveri e delle mie prerogative costituzionali. E sono qui oggi anche per dirvi quanto siano state e siano per me preziose l’ispirazione civile e morale, e la lezione di saggezza, che ho tratto dal rapporto con Norberto Bobbio. Gliene sono ancora grato.
Ai rischi fatali di antitesi e fratture, ben al di là dei confini italiani, si opponeva da parte di Bobbio l’“invito al colloquio”: al colloquio per lo meno egli scrisse nel 1951 tra gli uomini di cultura. Nella sinistra italiana tendevano, in quei primi anni ’50, a pesare sempre di più dottrinarismi e schematismi ideologici, in stretto rapporto con una scelta di campo nel confronto mondiale tra i due blocchi. Ma Bobbio ricercò con straordinaria apertura e sapienza il colloquio con uomini di cultura come Ranuccio Bianchi Bandinelli o Galvano della Volpe, rallegrandosi poi del fatto che nel dibattito fosse intervenuto anche Roderigo di Castiglia, come amava firmarsi Palmiro Togliatti. Sto parlando, com’è chiaro, della straordinaria serie di scritti in cui s’impegnò Bobbio tra il 1951 e il 1954 partendo dall’incontro con Umberto Campagnolo e con la Società Europea di Cultura e che furono quindi raccolti nel volume “Politica e cultura”.
E la testimonianza che posso dare è quella della difficoltà di un giovane ormai già schierato e interamente impegnato nel partito comunista, lettore della rivista Società o de Il Contemporaneo e naturalmente di Rinascita, a intendere la lezione di Bobbio. Lezione fondamentale in tema di libertà di libertà della cultura e di libertà in generale. La difficoltà nasceva naturalmente da un’adesione acritica alle tesi sostenute dai vertici del partito, ma anche, si può dire, da un’implicita convinzione che le questioni della libertà fossero state risolte nei fatti dalla vittoria sul fascismo e fossero state regolate nel modo più impegnativo ed esauriente con la definizione della Costituzione repubblicana. La polemica di Bobbio interveniva, invece, a sollevare interrogativi di fondo, a seminare dubbi, a proporre argomenti complessi, e a farlo dal punto di vista di un uomo di pensiero, di uno studioso portatore di molteplici valori politici, come ha scritto di recente Revelli liberalismo, democrazia, socialismo, federalismo che avevano caratterizzato da “ircocervo” il Partito d’Azione.
Non era dunque in nome di un bagaglio ideale ostile alla sinistra, era piuttosto in nome di un dichiarato interesse positivo per le sorti del movimento operaio e della sinistra, che Bobbio sviluppava il suo discorso, si rivolgeva a quegli interlocutori. Era un discorso volto a contestare una serie di semplificazioni e contrapposizioni fuorvianti libertà sostanziale, “di fatto”, “vera”, contro libertà giuridica o formale, libertà socialista contro libertà borghesi; un discorso, quello di Bobbio, volto a contestare la riduzione del concetto di libertà a quello di potere, cioè di potere di esercitare un diritto altrimenti astratto, e quindi la negazione del valore della libertà come non impedimento. Dietro le posizioni teoriche che Bobbio metteva drasticamente in questione, si manifestava in una parte della sinistra un’accentuata, prioritaria sensibilità per esigenze sociali e obbiettivi di riforma delle strutture economiche, ma si coglieva anche, e chiaramente, la difesa, l’idoleggiamento delle conquiste rivoluzionarie delle società dell’Est.
Di qui l’affermazione nettissima, da parte di Bobbio, della necessità, egli scrisse, che “qualunque sia la classe sociale che tenga le chiavi del potere, essa non governi dispoticamente e totalitariamente, ma assicuri all’individuo una sfera più o meno larga di attività non controllate, non dirette, non ossessivamente imposte”.... La passione che aveva nel passato animato parole di Bobbio la battaglia liberale contro il dispotismo si era tradotta in istituzioni e principi che egli esortava la sinistra a valorizzare pienamente: la garanzia dei diritti di libertà primo fra questi la libertà di pensiero e di stampa la divisione dei poteri, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche; la distinzione delle funzioni al servizio del principio di legalità; la distinzione degli organi dello Stato al servizio del principio di imparzialità.
Questo messaggio liberale di Bobbio si integrava peraltro con la valorizzazione da parte sua della democratizzazione dei regimi liberali, con l’impegno per la causa dell’uguaglianza, della giustizia e del progresso sociale. Un impegno che egli avrebbe, decenni più tardi, riaffermato con particolare forza all’indomani della caduta del comunismo. La componente socialista della sua identità di pensiero e politica era innegabile, confermata nei fatti dalla sua collaborazione col partito che incarnava quella tradizione. Nonostante ciò, la sua lezione torno alla prima metà degli anni ’50 non veniva facilmente recepita: né dai massimi custodi dell’ideologia e delle scelte politiche di fondo della forza maggiore della sinistra italiana, quella comunista, né da generazioni più giovani di militanti e di intellettuali.
Il paradosso stava nel fatto che la lotta politica nel paese, nei suoi termini concreti, spingeva più che mai la sinistra di opposizione a impugnare la bandiera della Costituzione repubblicana, della libertà e quindi di principi e diritti che nello stesso tempo si insisteva sul piano dottrinario a sottovalutare o relativizzare. Ma la forza di persuasione di un messaggio come quello di Bobbio e la forza di fatti traumatici come il ventesimo congresso del partito sovietico, cominciarono ad aprire delle brecce, a imporre delle revisioni, a cui altre sarebbero seguite negli anni e nei decenni successivi. Fu un’evoluzione lenta, faticosa, e quella lentezza, con il suo contorno di ambiguità, sarebbe stata pagata dalla sinistra e dal paese. Per me personalmente, apprendere la lezione di Bobbio fu determinante, anche perché mi sarebbe poi apparsa condurre verso l’orizzonte della socialdemocrazia europea.
Ne trassi, soprattutto, idee-guida, ispirazioni e valori che sarebbero andati molto al di là di riflessioni ed esperienze interne a una parte politica, per sfociare in una visione più matura dei problemi della democrazia italiana e delle sue istituzioni. Problemi che emersero nella stagione di cui pure, come ho detto all’inizio, desidero oggi dare testimonianza del mio dialogo più diretto e ravvicinato con Norberto Bobbio. Quel dialogo si infittì a partire dall’inizio degli anni ’80, dopo la scomparsa di un mio essenziale punto di riferimento politico, e interlocutore privilegiato di Bobbio, Giorgio Amendola. Giorgio non solo apparteneva alla stessa generazione di Norberto, ma era “molto legato” come qualche anno dopo la sua morte Bobbio ricordò “alla tradizione antifascista torinese”, e non cancellò mai del tutto dalla sua formazione il filone di liberalismo democratico impersonato da Piero Gobetti, né tantomeno “l’insegnamento di suo padre, che di quella corrente di democrazia liberale era stato” (scrisse sempre Bobbio) “un teorico e un coraggioso combattente”.
Io, pur appartenendo a una generazione molto più giovane e non avendo “titoli storici” per dialogare con Norberto Bobbio, cercai quel dialogo in nome del crescente rilievo, ormai, delle mie responsabilità politico-istituzionali e in continuità con quel precedente processo di faticoso apprendimento di cui ho parlato poc’anzi. E mi trovai a mio agio, così come nel dialogo con altri di me più anziani per fare un solo nome, Altiero Spinelli. Mi trovai a mio agio per un motivo che credo possa considerarsi fondato e che è questo: ci sono tra una generazione e l’altra, spesso, profonde cesure, ma non così tra la generazione di quanti vedemmo cadere il fascismo e concludersi la guerra, e l’Italia pagare il prezzo terribile della dittatura, del conflitto più distruttivo e della sconfitta, e la generazione che si era formata negli anni ’20 e temprata nell’antifascismo, la meravigliosa generazione dei maestri e compagni di Norberto Bobbio.
Non ci fu cesura tra le nostre generazioni, ma saldatura ideale come raramente accade, e possibilità di dialogo nella misura consentita dalle vicende della vita e della morte dei singoli. Così, scelsi di sollecitare Bobbio a scambiarci opinioni su vicende politico-parlamentari e poi, nel corso di tutti gli anni ’80, sempre di più, sul travaglio in atto nella sinistra italiana e sull’esito cui esso avrebbe potuto auspicabilmente giungere. Nel luglio del 1984 Bobbio era stato nominato dal Presidente Pertini senatore a vita, e avevamo così occasione di incontrarci anche a Montecitorio quando il Parlamento si riuniva in seduta comune (ad esempio, nel 1985, per l’elezione del Presidente della Repubblica, che sfiorò anche la persona di Bobbio). All’indomani di quella nomina, egli mi scrisse del disagio di dover “prendere una parte più attiva alla vita politica, che mi pare sempre più caotica e nella quale non so bene che parte prendere”. In realtà, egli sapeva che lo sbocco cui tendere era quello di una democrazia dell’alternanza anche in Italia e che ciò presupponeva un polo di sinistra rappresentato da quel grande partito riformista di stampo socialdemocratico europeo di cui lamentava la mancanza.
Ne discutemmo insieme qui a Torino nel marzo del 1982 in un bel convegno che vide in sostanza convergere le nostre posizioni, com’egli più tardi ricordò nella sua Autobiografia. L’obbiettivo era reso ancora arduo dallo stato dei rapporti tra i due maggiori partiti della sinistra, e Bobbio si esprimeva criticamente su entrambi, e anche dopo la svolta del 1989 nel PCI, ne parlava come di”un mulo cocciuto” che si fermava nel momento in cui avrebbe potuto raccogliere i frutti se ne avesse tratto tutte le conseguenze dalla sua marcia di avvicinamento al socialismo democratico europeo. Condividevamo largamente, insomma, giudizi ed auspici; e infine gli scrissi alla vigilia delle elezioni del 1992 mi ritrovai vicino al suo “sconforto storico” per il fatale riprodursi, senza quasi più speranza di superarla, della contrapposizione tra i due partiti. Già qualche anno prima, accusando stanchezza e depressione, mi aveva scritto: “Non ho mai avuto grande passione politica, intendo per la politica attiva, ora mi è passata del tutto”.
Ma quale fosse la sua passione civile, e la sua capacità di scendere in campo politicamente quando apparissero in giuoco le sorti dell’Italia, lo aveva mostrato e come! dinanzi all’attacco eversivo del terrorismo brigatista, e lo mostrò dinanzi alla crisi istituzionale del 1992-93. Qualcosa di simile alla passione civile e allo sgomento per le sorti della nazione che mossero Benedetto Croce a intervenire eccezionalmente nella vicenda politica dopo il crollo del ’43, nell’“Italia divisa in due”. Nella crisi del 1992-93 Bobbio si schierò attivamente per la riforma elettorale e costituzionale. Ne discutemmo all’Università di Torino nel maggio del 1993 (ero allora Presidente della Camera). “Riforma costituzionale”, egli disse in quell’occasione, “a partire dalla Costituzione presente”; “processo riformatore da condurre in Parlamento con metodo democratico”, aggiunse ironizzando sulla formula “rivoluzione costituzionale” agitata da un altro studioso.
Già in precedenza, quando ragionavamo sulle prospettive della sinistra, egli aveva indicato come motivo di dialogo serio tra quei partiti le riforme costituzionali, rispetto alle quali “non si poteva negare” osservò “che Craxi fosse stato un precursore”. Nel ’94 anche il progetto di riforma della Commissione Iotti abortì; egli, che aveva condiviso la mia diagnosi di una”impotenza a riformare” come male oscuro e grave della democrazia italiana, tornò a rilanciare tuttavia la sfida del cambiamento, ribadendo: “Guai a noi se daremo l’impressione di essere fedeli alla Costituzione sino a considerarla intoccabile” senza distinguere tra la sua prima e la sua seconda parte. Al di là delle problematiche e degli avvenimenti cui mi sono riferito finora, rilevo come certi accenti che ritrovo nel Bobbio di allora conservino una loro attualità.
E per quanto diversi siano i soggetti politici oggi in competizione e in contrasto rispetto a quelli del periodo in cui ci scrivevamo e discorrevamo con Bobbio, posso mi chiedo ripetere le sue parole di una lettera del ’92: “ci vorrebbe un po’ di equilibrio da parte di tutti”? Sono parole, se ripetute ora, destinate a lasciare il tempo che trovano? Fare, non dico “l’elogio della mitezza”, ma il più naturale appello al senso della misura, al confronto costruttivo, al rispetto delle istituzioni e alla considerazione dell’interesse comune, è dunque solo un dar prova d’ingenuità? Ebbene, fosse pure questo, io non desisterò dal mio appello, rivolto come sempre in tutte le direzioni. E sono convinto che molti italiani, al di là delle loro diverse, libere scelte elettorali, lo condividano, ne avvertano la necessità.
Le questioni politiche e ideali in cui eravamo coinvolti, ciascuno a suo modo, discutendone io e Bobbio tra di noi e con altri, più di vent’anni fa o giù di lì, mi appaiono ormai lontanissime, da tempo, per così dire, passate in giudicato. Naturalmente, quella è stata la mia storia: una storia non rimasta eguale al punto di partenza, ma passata attraverso decisive evoluzioni della realtà internazionale e nazionale e attraverso personali, profonde, dichiarate revisioni. Da quel contesto mi sono via via distaccato quanto più ero chiamato ad assumere ruoli non di parte, a farmi carico dei problemi delle istituzioni che regolano la nostra vita democratica, i diritti e i doveri dei cittadini. L’approccio partigiano, naturale in chi fa politica, è qualcosa di cui ci si spoglia in nome di una visione più ampia.
Tutti i miei predecessori a cominciare, nel primo settennato, da Luigi Einaudi avevano ciascuno la propria storia politica: sapevano, venendo eletti Capo dello Stato, di doverla e poterla non nascondere, ma trascendere. Così come ci sono stati Presidenti della Repubblica eletti in Parlamento da una maggioranza che coincideva con quella di governo, talvolta ristretta o ristrettissima, o da una maggioranza eterogenea, e contingente. Ma nessuno di loro se ne è fatto condizionare. Quella del Capo dello Stato “potere neutro”, al di sopra delle parti, fuori della mischia politica, non è una finzione, è la garanzia di moderazione e di unità nazionale posta consapevolmente nella nostra Costituzione come in altre dell’Occidente democratico. Per quante tensioni e difficoltà comporti l’adempiere un simile mandato, proseguirò nell’esercizio sereno e fermo dei miei doveri e delle mie prerogative costituzionali. E sono qui oggi anche per dirvi quanto siano state e siano per me preziose l’ispirazione civile e morale, e la lezione di saggezza, che ho tratto dal rapporto con Norberto Bobbio. Gliene sono ancora grato.