Commercio, due no dalla Consulta
Aperture festive, incostituzionale imporre la turnazione dei dipendenti
PESCARA. La Regione può concedere deroghe alle chiusure domenicali e festive dei negozi e dei centri commerciali, ma non può farlo chiedendo in cambio la turnazione dei dipendenti allo scopo di aumentare l'occupazione. Nello stesso tempo non si può chiedere ai centri commerciali una chiusura infrasettimanale in cambio di un'apertura festiva. E' invece legittimo prescrivere delle superfici minime per la vendita di farmaci.
Testo tormentato quella della riforma del commercio: tre volte cambiata dal consiglio regionale, due volte impugnata dal governo, ora censurata in parte dalla Corte costituzionale nella sentenza 150/2011, che respinge però anche due eccezioni di incostituzionalità avanzate da Palazzo Chigi, segno che il conflitto istituzionale tra Stato e Regioni è materia sempre più complessa e destinata a crescere.
La Consulta ha esaminato sia la legge regionale 17 del 2010, quella che stabilisce la deroga alla chiusura dei negozi e dei centri commerciali per 40 giorni complessivi tra domeniche e festività, e la legge 38 del 2010 che, come sottolinea la Corte costituzionale «si autoqualifica di interpretazione autentica» della precedente legge. I giudici costituzionali non si sono occupati al momento dell'ultimo intervento del consiglio regionale, quello del dicembre 2010, che ha mutato ancora la lettera della legge, riducendo il numero complessivo delle aperture domenicali e festive a 35. Una modifica chiesta da Rifondazione e Comunisti italiani e accettata dalla maggioranza (il Pd si è astenuto) per evitare l'ostruzionismo sulla legge di bilancio e sulla finanziaria e quindi scongiurare l'esercizio provvisorio.
Il primo articolo preso in considerazione dalla Consulta è il 5 comma 1 che stabilisce requisiti minimi di superficie da destinare alla vendita di farmaci da banco o di automedicazione (mq 40 per gli esercizi di vicinato; mq 80 per le medie strutture di vendita; mq 120 per le gradi strutture di vendita). Secondo la Corte la norma non è incostituzionale come sostiene il Governo, perché la priorità della legge è garantire l'accesso dei cittadini ai prodotti medicinali e garantire dunque la tutela della salute, mentre le questioni legate alle modalità di vendita sono «marginali».
Ugualmente infondata per la Corte è l'impugnativa del governo sulle deroghe alle chiusure domenicali e festive, che, secondo il Consiglio dei ministri, sarebbe materia di competenza statale. La Corte non è d'accordo, anzi secondo i giudici la legge abruzzese «amplia la portata liberalizzatrice» delle norme statali sull'apertura al mercato.
La censura della Corte costituzionale arriva invece per altre due norme che il legislatore regionale riteneva centrali nella definizione della riforma del commercio. La prima riguarda l'obbligo per la grande distribuzione di «assicurare il riposo ai lavoratori per almeno la metà delle giornate di apertura domenicale o festiva e a sostituire i lavoratori a riposo con assunzioni temporanee». L'altra è l'articolo 2 della legge 38/2010 per impone «per ogni giornata di deroga dall'obbligo di chiusura domenicale, una corrispondente giornata di chiusura infrasettimanale». Dice la Corte che queste norme vanno contro la legislazione sul lavoro. In sostanza, dice la Consulta, se si vuole essere liberisti bisogna esserlo fino in fondo.
Testo tormentato quella della riforma del commercio: tre volte cambiata dal consiglio regionale, due volte impugnata dal governo, ora censurata in parte dalla Corte costituzionale nella sentenza 150/2011, che respinge però anche due eccezioni di incostituzionalità avanzate da Palazzo Chigi, segno che il conflitto istituzionale tra Stato e Regioni è materia sempre più complessa e destinata a crescere.
La Consulta ha esaminato sia la legge regionale 17 del 2010, quella che stabilisce la deroga alla chiusura dei negozi e dei centri commerciali per 40 giorni complessivi tra domeniche e festività, e la legge 38 del 2010 che, come sottolinea la Corte costituzionale «si autoqualifica di interpretazione autentica» della precedente legge. I giudici costituzionali non si sono occupati al momento dell'ultimo intervento del consiglio regionale, quello del dicembre 2010, che ha mutato ancora la lettera della legge, riducendo il numero complessivo delle aperture domenicali e festive a 35. Una modifica chiesta da Rifondazione e Comunisti italiani e accettata dalla maggioranza (il Pd si è astenuto) per evitare l'ostruzionismo sulla legge di bilancio e sulla finanziaria e quindi scongiurare l'esercizio provvisorio.
Il primo articolo preso in considerazione dalla Consulta è il 5 comma 1 che stabilisce requisiti minimi di superficie da destinare alla vendita di farmaci da banco o di automedicazione (mq 40 per gli esercizi di vicinato; mq 80 per le medie strutture di vendita; mq 120 per le gradi strutture di vendita). Secondo la Corte la norma non è incostituzionale come sostiene il Governo, perché la priorità della legge è garantire l'accesso dei cittadini ai prodotti medicinali e garantire dunque la tutela della salute, mentre le questioni legate alle modalità di vendita sono «marginali».
Ugualmente infondata per la Corte è l'impugnativa del governo sulle deroghe alle chiusure domenicali e festive, che, secondo il Consiglio dei ministri, sarebbe materia di competenza statale. La Corte non è d'accordo, anzi secondo i giudici la legge abruzzese «amplia la portata liberalizzatrice» delle norme statali sull'apertura al mercato.
La censura della Corte costituzionale arriva invece per altre due norme che il legislatore regionale riteneva centrali nella definizione della riforma del commercio. La prima riguarda l'obbligo per la grande distribuzione di «assicurare il riposo ai lavoratori per almeno la metà delle giornate di apertura domenicale o festiva e a sostituire i lavoratori a riposo con assunzioni temporanee». L'altra è l'articolo 2 della legge 38/2010 per impone «per ogni giornata di deroga dall'obbligo di chiusura domenicale, una corrispondente giornata di chiusura infrasettimanale». Dice la Corte che queste norme vanno contro la legislazione sul lavoro. In sostanza, dice la Consulta, se si vuole essere liberisti bisogna esserlo fino in fondo.
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