«Il rischio è il conformismo»
Festival Atri reportage, Capuozzo valuta il giornalismo di oggi.
«Il guaio peggiore dei giornalisti è il conformismo, l’indipendenza ognuno se la trova, se vuole. E poi in Italia troppi di noi sono militanti, il che può anche andare bene quando la militanza è evidente, come Fede o Santoro, ma non lo è più quando l’appartenenza politica è più nascosta».
Toni Capuozzo è un giornalista abituato ad andare sul posto dove accadono i fatti, anche quando significa rischiare la vita, ed è perciò schietto, sintetico ai limiti della durezza. Non a caso, dunque, gli è stata affidata la direzione del Festival Atri reportage che si apre oggi nella splendida cittadina teramana (si veda anche il pezzo in basso).
Capuozzo ha rilasciato al Centro l’intervista che segue.
Come è nata l’idea di questo festival?
«La volontà dell’amministrazione comunale era quello di dare ulteriore visibilità a un centro bellissimo come Atri, che ha tutte le sue carte da giocare: turismo culturale, enogastronomico, un turismo che si prende qualche ora di pausa dalle spiagge e che vada alla scoperta di un Abruzzo meno conosciuto come quello dell’entroterra. E poi si voleva dare visibilità a un genere di giornalismo che ha forti ma rari interpreti in Italia: il reportage fotografico. A queste due esigenze di fondo si sono aggiunti gli spazi per il reportage televisivo e della carta stampata. Il festival sarà un momento di incontro tra mostre, dibattiti, presentazioni di libri di giornalisti».
Cos’è il giornalismo di inchiesta oggi e, soprattutto, esiste ancora?
«Esiste sicuramente. Penso alle inchieste rigorose su temi che interessano al cittadino come “Report” della Gabanelli o a trasmissioni come quella che curo io, “Terra”, dove lo studio è quasi inesistente, contano solo le telecamere sul terreno e il giornalista sul campo. Ma esiste ancora sulla carta stampata. L’altro giorno c’era una paginata di Ettore Mo sul Corriere. Però il giornalismo di inchiesta è spesso sopraffatto da un giornalismo più frivolo. Non è tanto per la pigrizia del giornalista ma, penso, soprattutto per una questione di costi. E’ molto più economico per le aziende far fare un pezzo al telefono che mandare un inviato.
I giornali nazionali, ormai, si fanno con le agenzie, i settimanali copiando i quotidiani, la tv rubacchia un po’ dappertutto e la realtà è diventata un accessorio. Poi c’è un altro problema, prima di decidere cosa pubblicare pensiamo a chi o a cosa può essere utile una notizia, o a chi e a cosa possa dar fastidio. In questi giorni sono andato a Lampedusa dove dal 23 maggio non c’è più uno sbarco di clandestini. E’ una notizia, uno la può prendere bene o male, essere d’accordo o no. Beh, non c’è un giornale che abbia fatto un reportage su questo. Sembra quasi che se uno dà spazio a una notizia del genere si fa un favore a Maroni o al governo. Ma la notizia è la notizia».
Cosa pensa del giornalismo locale?
«Lo dico da sempre e non perché parlo con te. E’ la parte sana del giornalismo, c’è un contatto diretto con il lettore e si può fare poco o nulla con le agenzie. In Italia non esiste il grande giornale popolare perché esiste il giornale locale. Ma se vuoi avere le notizie di una comunità non puoi fare a meno di leggere il giornale locale».
Quanto i giornalisti sono ancora indipendenti (se mai lo sono stati)?
«Penso che il guaio peggiore sia il conformismo. E’ ovvio che ogni direttore riceve la telefonata dall’onorevole, dal politico, dall’industriale... Ma l’indipendenza è possibile. La nostra categoria, però, è spesso preda di passioni politiche. Il problema è che se vai a mangiare in un ristorante cinese poi non puoi chiedere la pasta all’italiana».
Nel festival parlate ovviamente del terremoto dell’Aquila. Come è stato raccontato, secondo lei, dai media italiani?
«Sì tra le tante c’è una mostra molto, molto bella. Penso che i media sono lo specchio del Paese. Il nostro è un Paese, oggi, nel quale la tv ha una parte importante, e come esistono medici bravi e cattivi così accade per i giornalisti. Se vai col taccuino in una tendopoli difficilmente sei un intruso, ma la telecamera è più forte, è più invadente. In una tragedia come quella del terremoto all’Aquila, dunque, è inevitabile che ci sia la ricerca della lacrima facile. Ma in questo vi ha aiutato il vostro carattere forte, di abruzzesi seri, tenaci».
Toni Capuozzo è un giornalista abituato ad andare sul posto dove accadono i fatti, anche quando significa rischiare la vita, ed è perciò schietto, sintetico ai limiti della durezza. Non a caso, dunque, gli è stata affidata la direzione del Festival Atri reportage che si apre oggi nella splendida cittadina teramana (si veda anche il pezzo in basso).
Capuozzo ha rilasciato al Centro l’intervista che segue.
Come è nata l’idea di questo festival?
«La volontà dell’amministrazione comunale era quello di dare ulteriore visibilità a un centro bellissimo come Atri, che ha tutte le sue carte da giocare: turismo culturale, enogastronomico, un turismo che si prende qualche ora di pausa dalle spiagge e che vada alla scoperta di un Abruzzo meno conosciuto come quello dell’entroterra. E poi si voleva dare visibilità a un genere di giornalismo che ha forti ma rari interpreti in Italia: il reportage fotografico. A queste due esigenze di fondo si sono aggiunti gli spazi per il reportage televisivo e della carta stampata. Il festival sarà un momento di incontro tra mostre, dibattiti, presentazioni di libri di giornalisti».
Cos’è il giornalismo di inchiesta oggi e, soprattutto, esiste ancora?
«Esiste sicuramente. Penso alle inchieste rigorose su temi che interessano al cittadino come “Report” della Gabanelli o a trasmissioni come quella che curo io, “Terra”, dove lo studio è quasi inesistente, contano solo le telecamere sul terreno e il giornalista sul campo. Ma esiste ancora sulla carta stampata. L’altro giorno c’era una paginata di Ettore Mo sul Corriere. Però il giornalismo di inchiesta è spesso sopraffatto da un giornalismo più frivolo. Non è tanto per la pigrizia del giornalista ma, penso, soprattutto per una questione di costi. E’ molto più economico per le aziende far fare un pezzo al telefono che mandare un inviato.
I giornali nazionali, ormai, si fanno con le agenzie, i settimanali copiando i quotidiani, la tv rubacchia un po’ dappertutto e la realtà è diventata un accessorio. Poi c’è un altro problema, prima di decidere cosa pubblicare pensiamo a chi o a cosa può essere utile una notizia, o a chi e a cosa possa dar fastidio. In questi giorni sono andato a Lampedusa dove dal 23 maggio non c’è più uno sbarco di clandestini. E’ una notizia, uno la può prendere bene o male, essere d’accordo o no. Beh, non c’è un giornale che abbia fatto un reportage su questo. Sembra quasi che se uno dà spazio a una notizia del genere si fa un favore a Maroni o al governo. Ma la notizia è la notizia».
Cosa pensa del giornalismo locale?
«Lo dico da sempre e non perché parlo con te. E’ la parte sana del giornalismo, c’è un contatto diretto con il lettore e si può fare poco o nulla con le agenzie. In Italia non esiste il grande giornale popolare perché esiste il giornale locale. Ma se vuoi avere le notizie di una comunità non puoi fare a meno di leggere il giornale locale».
Quanto i giornalisti sono ancora indipendenti (se mai lo sono stati)?
«Penso che il guaio peggiore sia il conformismo. E’ ovvio che ogni direttore riceve la telefonata dall’onorevole, dal politico, dall’industriale... Ma l’indipendenza è possibile. La nostra categoria, però, è spesso preda di passioni politiche. Il problema è che se vai a mangiare in un ristorante cinese poi non puoi chiedere la pasta all’italiana».
Nel festival parlate ovviamente del terremoto dell’Aquila. Come è stato raccontato, secondo lei, dai media italiani?
«Sì tra le tante c’è una mostra molto, molto bella. Penso che i media sono lo specchio del Paese. Il nostro è un Paese, oggi, nel quale la tv ha una parte importante, e come esistono medici bravi e cattivi così accade per i giornalisti. Se vai col taccuino in una tendopoli difficilmente sei un intruso, ma la telecamera è più forte, è più invadente. In una tragedia come quella del terremoto all’Aquila, dunque, è inevitabile che ci sia la ricerca della lacrima facile. Ma in questo vi ha aiutato il vostro carattere forte, di abruzzesi seri, tenaci».