L’Abruzzo degli scomparsi e di chi non si arrende
Nasce l’associazione Penelope per aiutare le famiglie che restano sole. Le storie di chi da nove anni aspetta il padre e di chi cerca il figlio
TERAMO. Poco. A volte niente. Un volto tra tanti, una voce al telefono: lo stretto indispensabile per inserire qualche coordinata nel silenzio. Quello di chi scompare e di chi aspetta in una sorta di limbo senza fine. Negli ultimi 40 anni sono spariti 424 abruzzesi, come se un piccolo paese non esistesse più.
E la cronaca recente snocciola casi come grani di un rosario: da Eleonora Gizzi, la giovane insegnante di musica di Vasto ritrovata senza vita sotto un viadotto dopo la sua scomparsa da casa, a Daniele Taddei, il 28enne operaio di Sant’Omero sparito il primo agosto di un anno fa. Storie sospese in un’atemporalità irreale, tra ricerche che difficilmente approdano a qualcosa e segnalazioni a cui attaccare speranze. Quelle di chi continua ad aspettare un figlio, un padre, un amico, un marito. Come la Penelope di Ulisse. E non a caso porta proprio il suo nome la federazione di associazioni territoriali di familiari e amici di persone scomparse che è nata anche in Abruzzo. «Perché chi resta non ha la certezza che gli altri siano morti nè che siano vivi», dice Annalisa Loconsole, una delle promotrici nazionali che quando nove anni fa si è ritrovata a cercare il padre 71enne malato di alzheimer ha capito che quello che è toccato a lei poteva capitare a tutti. «Ho sentito il dovere di impegnarmi», racconta, «perché quando una persona scompare i familiari sprofondano in un abisso, restano soli a far ricerche, a combattere contro la burocrazia per cui una persona sparita non è morta e quindi presente. Per le famiglie è drammatico: da una parte il dolore e l’angoscia di non sapere quello che sta succedendo al proprio caro, dall’altra l’ordinaria burocrazia in cui chiudere un conto in banca diventa un’impresa, la pensione della persona scomparsa viene bloccata e anche occuparsi di una quota associativa diventa un percorso ad ostacoli».
Annalisa oggi vive a Bari. Il 4 agosto saranno nove anni dalla scomparsa del padre. «Era malato di alzheimer e noi abbiamo dovuto spiegare agli investigatori cosa fosse questa malattia», racconta, «è uscito di casa e non è più tornato. Noi familiari l’abbiamo cercato per settimane battendo ogni angolo della città. Ancora oggi non sappiamo che cosa sia successo». E non sanno che cosa sia successo Ottavio e Rosella Taddei, i genitori di Daniele sparito un anno fa dalla sua casa di Sant’Omero. «A volte pensi ad un gesto estremo», dice il padre, «a volte ti convinci di altro. Ma è allucinante vivere in questo modo. Anche perchè ti chiedi sempre se è vivo. Non si riesce a capire cosa sia successo. Mio figlio è sparito con la macchina, ma l’auto non è mai stata trovata. Eppure le ricerche ci sono state, anche i fiumi sono stati scandagliati. E nei prossimi giorni cominceranno a controllare anche gli altri specchi d’acqua al confine tra diverse province. Ma la mia famiglia da un anno non sa più niente di Daniele. E anche le segnalazioni che arrivano non sono sempre veritiere». Segnalazioni che spesso alimentano una fabbrica di chiacchiere generiche, spesso appese alle nuvole e fondate sul nulla. «E’ come vivere in una palude», dice Taddei, «pensi sempre a chi non c’è. Lo fai in tutti i momenti della giornata, mettendo insieme tanti se e tanti ma. Pensi ma se quel giorno avessi fatto questo forse lo avrei potuto bloccare, oppure ti torturi su un particolare cercando di ricordare tutto quello che puoi».
Perché chiudere la porta di casa e svanire nel nulla non significa solo certificare il proprio dramma, ma anche far esplodere quello di una famiglia. Famiglie che il più delle volte restano le sole a continuare a cercare. «Perché in un’epoca di tecnologie avanzate», chiude Annalisa Loconsole, «non è ammissibile che una collettività possa accettare di perdere qualcuno come si perde un mazzo di chiavi. Abbiamo il dovere di non rassegnarci e fare tutto il possibile».
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