L’Abruzzo globale e locale
Economia e crisi in un libro di Giuseppe Mauro oggi all’ateneo D’Annunzio.
«Tra globalizzazione e localismo: alcune riflessioni sull’economia dell’Abruzzo»: è il titolo di un libro (Franco Angeli, 335 pagine, 39 euro) curato da Giuseppe Mauro che sarà presentato, questa mattina alle 10.30 nella aula magna Federico Caffè della facoltà di Economia dell’università D’Annunzio, in viale Pindaro a Pescara.
Mauro, docente ordinario di Politica economica alla D’Annunzio, presenterà il saggio. Con lui ci saranno Gianni Chiodi, presidente della Regione, Anna Morgante, preside della facoltà di Economia, Piergiorgio Landini, direttore del dipartimento di Economia e storia del territorio, Roberto Campo, segretario regionale della Uil, Alfredo Castiglione, assessore regionale alle Attività produttive, e Riccardo Calogero Marrollo, presidente di Confinduatria Abruzzo. Il libro - introdotto da un lungo saggio di Mauro - raccoglie scritti di Alberto Bazzucchi, Riccardo Crescenzi, Claudio Di Berardino, Valter Di Giacinto, Lelio Iapadre, Giovanni Mastronardi, Massimo Minolfi, Davide Quaglione, Andrés Rodrìguez-Pose e Alessandro Sarra.
Dei temi del libro e delle prospettive dell’economia abruzzese nell’era della crisi globale, Mauro parla in questa intervista al Centro.
Qual è lo stato di salute dell’economia abruzzese?
«L’economia abruzzese si trova in una fase recessiva, al pari di quella del resto d’Italia, testimoniata da alcuni indicatori: il calo dell’occupazione, della produzione dell’industria manufatturiera e dell’export. Questo calo, piuttosto accentuato, dipende da alcune peculiarità dell’Abruzzo rispetto ad altre regioni».
Quali, per esempio?
«Intanto, è una regione molto industrializzata, e la crisi finanziaria ha colpito proprio l’industria. Inoltre, la crisi ha colpito soprattutto il settore della produzione dei mezzi di trasporto che, in Abruzzo, presenta la percentuale di occupati più alta all’interno dell’export».
La discesa dell’economia abruzzese non è legata, però, solo alla crisi globale attuale.
«Abbiamo avuto questo tipo di andamento. All’indomani dell’uscita dall’Obiettivo 1 europeo, all’inizio degli anni ’90, abbiamo continuato ad avere uno sviluppo molto intenso, in linea con la tendenza dell’economia nazionale. Invece, nel corso degli anni 2000, abbiamo avuto una caduta molto accentuata del Pil, il Prodotto interno lordo, soprattutto nel triennio 2002-2004».
Quali sono state le cause di questo comportamento?
«C’è da tenere conto del fatto che la componente fondamentale è quella dei distretti industriali, delle piccole e medie imprese che sono state aggredite dall’irrompere sulla scena dell’economia low cost. Il settore ha risentito fortemente di questa nuova concorrenza internazionale. La presenza massiccia di imprenditori cinesi nel settore del tessile e dell’abbigliamento sta avvicinando la provincia di Teramo al modello pratese».
L’Abruzzo è destinato a una prospettiva di ritorno al sottosviluppo o c’è una possibilità di ripresa dello sviluppo degli anni ’70 e ’80?
«La ripresa dello sviluppo dipende da molti fattori. L’Abruzzo è una regione complessa, benché piccola, in cui convivono piccole imprese e grandi, quasi tutte di estrazione esogena. E’, inoltre, una regione in cui convivono esperienze imprenditoriali a elevata competitività e piccole imprese residuali. Un altro elemento di complessità: è una regione con province che hanno configurazioni imprenditoriali molto differenziate: a Teramo la piccola impresa, a Chieti la grande, a Pescara il terziario, e all’Aquila, almeno fino a prima del terremoto, la cosiddetta economia della conoscenza. Queste quattro, diverse dotazioni imprenditoriuali potrebbero e dovrebbero entrare in rete per rappresentare un punto di forza, ma questo al momento non avviene».
Qual è la strada da percorrere per riprendere lo sviluppo?
«C’è, innanzitutto, l’esigenza di dare la priorità al superamento delle due aree critiche fondamentali: quella della piccola impresa del Teramano e l’area dell’Abruzzo centrale - Val Peligna e Aquilano - che vive l’esaurimento di un modello di sviluppo esogeno, non locale. La seconda esigenza è quella di un intervento infrastrutturale che è stato positivo, finora, per quanto riguarda la parte stradale mentre è fortemente deficitario in alcune componenti come quelle ferroviarie, portuali e del capitale umano. La terza strada è quella di mettere in rete le tante competenze che esistono nel territorio, come i centri di ricerca e le università».
Il difetto principale dell’economia abruzzese attuale?
«Non abbiamo colto in tempo che lo scenario economico mondiale stava modificandosi radicalmente. Un po’ tutti hanno assistito a questa trasformazione in maniera passiva, non cogliendo in essa un’occasione di grande cambiamento. C’è, poi, un sottodimensionamento, rispetto al resto d’Italia, della componente terziaria. Il passaggio dai settori primario e secondario al terziario richiede molti anni. Se prendiamo il periodo che va dal 1996 al 2008, notiamo che nel settore industriale l’Abruzzo ha mantenuto una sua peculiarità in positivo. Mentre nei servizi il tasso di crescita è stato del 15 per cento, contro il 22 per cento della media italiana».
Nel libro lei si augura che gli animal spirits degli imprenditori contagino positivamente la classe politica: che cosa è che non funziona nella classe politica abruzzese?
«Negli ultimi anni si è assistito al prevalere di un capitalismo relazionale rispetto al capitalismo della prossimità. Il capitalismo relazionale è quello in cui è opaco il rapporto fra classe politica e classe imprenditoriale; il capitalismo della prossimità, invece, implica una classe politica capace di stare vicino alle imprese e di accompagnarle nel loro processo di crescita creando economie esterne. Questo ha comportato un allontanamento del tema dello sviluppo al quale non è stata dedicata la necessaria attenzione. E’ come se tutti ci fossimo seduti in una fase di transizione difficile».
C’è qualcuno che è capace di alzarsi?
«Mi auguro di sì. Il passaggio elettorale continuo fra centrosinistra e centrodestra non è forse il sintomo di una mancata risposta ai problemi della società abruzzese? La classe politica manifesta una difficoltà a dare risposte concrete al processo di continua trasformazione in atto».
Vede in giro personalità politiche capaci di cambiare questa tendenza?
«Mi auguro che il presidente Chiodi possa cogliere i fermenti d’innovazione e di modernizzazione che la regione è in grado ancora di esprimere».
Mauro, docente ordinario di Politica economica alla D’Annunzio, presenterà il saggio. Con lui ci saranno Gianni Chiodi, presidente della Regione, Anna Morgante, preside della facoltà di Economia, Piergiorgio Landini, direttore del dipartimento di Economia e storia del territorio, Roberto Campo, segretario regionale della Uil, Alfredo Castiglione, assessore regionale alle Attività produttive, e Riccardo Calogero Marrollo, presidente di Confinduatria Abruzzo. Il libro - introdotto da un lungo saggio di Mauro - raccoglie scritti di Alberto Bazzucchi, Riccardo Crescenzi, Claudio Di Berardino, Valter Di Giacinto, Lelio Iapadre, Giovanni Mastronardi, Massimo Minolfi, Davide Quaglione, Andrés Rodrìguez-Pose e Alessandro Sarra.
Dei temi del libro e delle prospettive dell’economia abruzzese nell’era della crisi globale, Mauro parla in questa intervista al Centro.
Qual è lo stato di salute dell’economia abruzzese?
«L’economia abruzzese si trova in una fase recessiva, al pari di quella del resto d’Italia, testimoniata da alcuni indicatori: il calo dell’occupazione, della produzione dell’industria manufatturiera e dell’export. Questo calo, piuttosto accentuato, dipende da alcune peculiarità dell’Abruzzo rispetto ad altre regioni».
Quali, per esempio?
«Intanto, è una regione molto industrializzata, e la crisi finanziaria ha colpito proprio l’industria. Inoltre, la crisi ha colpito soprattutto il settore della produzione dei mezzi di trasporto che, in Abruzzo, presenta la percentuale di occupati più alta all’interno dell’export».
La discesa dell’economia abruzzese non è legata, però, solo alla crisi globale attuale.
«Abbiamo avuto questo tipo di andamento. All’indomani dell’uscita dall’Obiettivo 1 europeo, all’inizio degli anni ’90, abbiamo continuato ad avere uno sviluppo molto intenso, in linea con la tendenza dell’economia nazionale. Invece, nel corso degli anni 2000, abbiamo avuto una caduta molto accentuata del Pil, il Prodotto interno lordo, soprattutto nel triennio 2002-2004».
Quali sono state le cause di questo comportamento?
«C’è da tenere conto del fatto che la componente fondamentale è quella dei distretti industriali, delle piccole e medie imprese che sono state aggredite dall’irrompere sulla scena dell’economia low cost. Il settore ha risentito fortemente di questa nuova concorrenza internazionale. La presenza massiccia di imprenditori cinesi nel settore del tessile e dell’abbigliamento sta avvicinando la provincia di Teramo al modello pratese».
L’Abruzzo è destinato a una prospettiva di ritorno al sottosviluppo o c’è una possibilità di ripresa dello sviluppo degli anni ’70 e ’80?
«La ripresa dello sviluppo dipende da molti fattori. L’Abruzzo è una regione complessa, benché piccola, in cui convivono piccole imprese e grandi, quasi tutte di estrazione esogena. E’, inoltre, una regione in cui convivono esperienze imprenditoriali a elevata competitività e piccole imprese residuali. Un altro elemento di complessità: è una regione con province che hanno configurazioni imprenditoriali molto differenziate: a Teramo la piccola impresa, a Chieti la grande, a Pescara il terziario, e all’Aquila, almeno fino a prima del terremoto, la cosiddetta economia della conoscenza. Queste quattro, diverse dotazioni imprenditoriuali potrebbero e dovrebbero entrare in rete per rappresentare un punto di forza, ma questo al momento non avviene».
Qual è la strada da percorrere per riprendere lo sviluppo?
«C’è, innanzitutto, l’esigenza di dare la priorità al superamento delle due aree critiche fondamentali: quella della piccola impresa del Teramano e l’area dell’Abruzzo centrale - Val Peligna e Aquilano - che vive l’esaurimento di un modello di sviluppo esogeno, non locale. La seconda esigenza è quella di un intervento infrastrutturale che è stato positivo, finora, per quanto riguarda la parte stradale mentre è fortemente deficitario in alcune componenti come quelle ferroviarie, portuali e del capitale umano. La terza strada è quella di mettere in rete le tante competenze che esistono nel territorio, come i centri di ricerca e le università».
Il difetto principale dell’economia abruzzese attuale?
«Non abbiamo colto in tempo che lo scenario economico mondiale stava modificandosi radicalmente. Un po’ tutti hanno assistito a questa trasformazione in maniera passiva, non cogliendo in essa un’occasione di grande cambiamento. C’è, poi, un sottodimensionamento, rispetto al resto d’Italia, della componente terziaria. Il passaggio dai settori primario e secondario al terziario richiede molti anni. Se prendiamo il periodo che va dal 1996 al 2008, notiamo che nel settore industriale l’Abruzzo ha mantenuto una sua peculiarità in positivo. Mentre nei servizi il tasso di crescita è stato del 15 per cento, contro il 22 per cento della media italiana».
Nel libro lei si augura che gli animal spirits degli imprenditori contagino positivamente la classe politica: che cosa è che non funziona nella classe politica abruzzese?
«Negli ultimi anni si è assistito al prevalere di un capitalismo relazionale rispetto al capitalismo della prossimità. Il capitalismo relazionale è quello in cui è opaco il rapporto fra classe politica e classe imprenditoriale; il capitalismo della prossimità, invece, implica una classe politica capace di stare vicino alle imprese e di accompagnarle nel loro processo di crescita creando economie esterne. Questo ha comportato un allontanamento del tema dello sviluppo al quale non è stata dedicata la necessaria attenzione. E’ come se tutti ci fossimo seduti in una fase di transizione difficile».
C’è qualcuno che è capace di alzarsi?
«Mi auguro di sì. Il passaggio elettorale continuo fra centrosinistra e centrodestra non è forse il sintomo di una mancata risposta ai problemi della società abruzzese? La classe politica manifesta una difficoltà a dare risposte concrete al processo di continua trasformazione in atto».
Vede in giro personalità politiche capaci di cambiare questa tendenza?
«Mi auguro che il presidente Chiodi possa cogliere i fermenti d’innovazione e di modernizzazione che la regione è in grado ancora di esprimere».