L'artigiano con la passione del ritmoEcco i tamburi di Isola del Gran Sasso
Un mestiere scoperto a 35 anni: «Non c'è gruppo folk che non richieda i miei strumenti»
Pelli, fasce, corde e legname. Sono questi gli strumenti di lavoro di Roberto Vantini, 56enne costruttore di tamburi e grancasse di Isola del Gran Sasso d'Italia. Roberto costruisce anche altri strumenti della tradizione popolare come l'urra-urra. Un'attività che non è mai stata per lui un lavoro, soltanto una grande passione. Un modo per tenersi impegnato e per rilassarsi dagli stress della vita.
Roberto nella sua bottega lavora senza ansie, senza orari stabiliti, lo fa quando ha tempo e, quando non ne ha, cerca di ritagliarselo perché come sottolinea sorridendo, «non si può stare lontani a lungo dalle cose che si amano». Un mestiere che ha scoperto relativamente tardi, all'età di 35 anni, senza maestri, senza lezioni. Un'arte che ha "rubato" a un signore di Pretara, Giovanni Tomolati.
«Lo conoscevo» racconta «e spesso mi chiedeva di dargli una mano nell'avvolgere la pelle di capra nel cerchio battitore. Ci andavo spesso, poi un giorno, tornando a casa, mi venne voglia di provarci e di cercare anche di risolvere il "limite" di Giovanni. Quello di non riuscire a fissare da solo la pelle. Chiamai un mio amico falegname e mi feci fare i cechi e il compensato e ho iniziato».
Una passione nata come una sfida con se stesso. Per riuscire da solo nell'impresa di avvolgere le pelli al cerchio trovò una soluzione originale e semplice allo stesso tempo. «Usai le mollette per appendere i vestiti ad asciugare» ricorda «e poi con la colla iniziai a fissare la pelle. Quando Giovanni vide i miei tamburi mi definì un artista, disse che non ne avrebbe fatti più di strumenti e ne volle uno da me».
Per ogni strumento che realizzava i risultati erano migliori, i tamburi pian piano hanno iniziato a farsi apprezzare ovunque e la sua voglia di fare è sempre cresciuta. «Non ero bravo all'inizio» prosegue «ho imparato pian piano. La prima grancassa la feci per Carlo Di Silvestre, un amico etnomusicolo, da lì non ho più smesso». Mai ha pensato però di trasformare la sua passione in una impresa. «È un hobby e tale deve restare» precisa Roberto. «Sono artigiano e non imprenditore, mi piace che lo strumento nasca dalle mie mani».
Roberto nella vita ha sempre fatto mille lavori. Ha lavorato anche nei cantieri e nella costruzione del traforo del Gran Sasso, aiuta sua moglie nella gestione del ristorante di famiglia e da qualche tempo è pensionato. Circa quattro anni fa è stato colpito da un infarto. Solo una pausa per lui. La sua voglia di fare non è cessata, anzi.
«Faccio le stesse cose di prima» sottolinea «e le faccio con grande piacere. Il tenermi impegnato mi fa stare bene». Collabora con sua figlia, ceramista a Castelli e molto brava nella pittura, nel rendere unici i pezzi realizzati. Su richiesta i tamburi possono essere infatti decorati secondo le esigenze del cliente.
Quello che colpisce di Roberto sono le mani. Piccole e abili. Ci sono tante rughe sulle sue dita, piccoli solchi ricchi di storia. Sono mani che sanno fare, che sanno destreggiarsi con le corde da inserire, la pelle da tendere, il legname da assemblare. Il suono dei suoi strumenti è inconfondibile.
«Lo dicono tutti quelli che li hanno provati», dice Roberto Vantini. «Il segreto è tutto nella tecnica e nel fare con cura tutti i passaggi. Dal tipo di legname scelto: si usano strisce di fassino per i cerchi e legname di faggio e pioppo per la cassa, e ovviamente serve cura anche nella tecnica di assemblaggio. Non c'è gruppo folkloristico» dice orgoglioso «che una volta avermi conosciuto non ha comprato i miei strumenti. Questa è per me una grande soddisfazione. Le richieste arrivano da tutta Italia».
C'è un piccolo sito sul web dedicato a lui. È possibile infatti vedere delle sue foto e i suoi strumenti. Lo slogan che lo apre è: «I gesti della tradizione nel suono dei ricordi». Tra le altre cose, Roberto si diletta anche nel restauro. Da qualche tempo si impegna nel dare nuova vita ai mobili. «Si tratta per lo più di mobili vecchi», spiega «antichi non ce ne sono molti, ma è bello rimetterli in sesto e vederli in qualche modo rinascere».
Roberto ha tre figli, due maschi e una femmina. Il più piccolo sembra essere l'unico interessato a proseguire l'attività del padre. «Ha 11 anni», dice «viene spesso a guardarmi e fa tante domande. È curioso di sapere e di imparare e io gli rispondo sempre con le stesse parole: Non c'è niente che io debba insegnarti. Questo mestiere lo devi rubare. Guarda, osserva bene e rubami l'arte. Solo così si diventa artigiani».
Roberto nella sua bottega lavora senza ansie, senza orari stabiliti, lo fa quando ha tempo e, quando non ne ha, cerca di ritagliarselo perché come sottolinea sorridendo, «non si può stare lontani a lungo dalle cose che si amano». Un mestiere che ha scoperto relativamente tardi, all'età di 35 anni, senza maestri, senza lezioni. Un'arte che ha "rubato" a un signore di Pretara, Giovanni Tomolati.
«Lo conoscevo» racconta «e spesso mi chiedeva di dargli una mano nell'avvolgere la pelle di capra nel cerchio battitore. Ci andavo spesso, poi un giorno, tornando a casa, mi venne voglia di provarci e di cercare anche di risolvere il "limite" di Giovanni. Quello di non riuscire a fissare da solo la pelle. Chiamai un mio amico falegname e mi feci fare i cechi e il compensato e ho iniziato».
Una passione nata come una sfida con se stesso. Per riuscire da solo nell'impresa di avvolgere le pelli al cerchio trovò una soluzione originale e semplice allo stesso tempo. «Usai le mollette per appendere i vestiti ad asciugare» ricorda «e poi con la colla iniziai a fissare la pelle. Quando Giovanni vide i miei tamburi mi definì un artista, disse che non ne avrebbe fatti più di strumenti e ne volle uno da me».
Per ogni strumento che realizzava i risultati erano migliori, i tamburi pian piano hanno iniziato a farsi apprezzare ovunque e la sua voglia di fare è sempre cresciuta. «Non ero bravo all'inizio» prosegue «ho imparato pian piano. La prima grancassa la feci per Carlo Di Silvestre, un amico etnomusicolo, da lì non ho più smesso». Mai ha pensato però di trasformare la sua passione in una impresa. «È un hobby e tale deve restare» precisa Roberto. «Sono artigiano e non imprenditore, mi piace che lo strumento nasca dalle mie mani».
Roberto nella vita ha sempre fatto mille lavori. Ha lavorato anche nei cantieri e nella costruzione del traforo del Gran Sasso, aiuta sua moglie nella gestione del ristorante di famiglia e da qualche tempo è pensionato. Circa quattro anni fa è stato colpito da un infarto. Solo una pausa per lui. La sua voglia di fare non è cessata, anzi.
«Faccio le stesse cose di prima» sottolinea «e le faccio con grande piacere. Il tenermi impegnato mi fa stare bene». Collabora con sua figlia, ceramista a Castelli e molto brava nella pittura, nel rendere unici i pezzi realizzati. Su richiesta i tamburi possono essere infatti decorati secondo le esigenze del cliente.
Quello che colpisce di Roberto sono le mani. Piccole e abili. Ci sono tante rughe sulle sue dita, piccoli solchi ricchi di storia. Sono mani che sanno fare, che sanno destreggiarsi con le corde da inserire, la pelle da tendere, il legname da assemblare. Il suono dei suoi strumenti è inconfondibile.
«Lo dicono tutti quelli che li hanno provati», dice Roberto Vantini. «Il segreto è tutto nella tecnica e nel fare con cura tutti i passaggi. Dal tipo di legname scelto: si usano strisce di fassino per i cerchi e legname di faggio e pioppo per la cassa, e ovviamente serve cura anche nella tecnica di assemblaggio. Non c'è gruppo folkloristico» dice orgoglioso «che una volta avermi conosciuto non ha comprato i miei strumenti. Questa è per me una grande soddisfazione. Le richieste arrivano da tutta Italia».
C'è un piccolo sito sul web dedicato a lui. È possibile infatti vedere delle sue foto e i suoi strumenti. Lo slogan che lo apre è: «I gesti della tradizione nel suono dei ricordi». Tra le altre cose, Roberto si diletta anche nel restauro. Da qualche tempo si impegna nel dare nuova vita ai mobili. «Si tratta per lo più di mobili vecchi», spiega «antichi non ce ne sono molti, ma è bello rimetterli in sesto e vederli in qualche modo rinascere».
Roberto ha tre figli, due maschi e una femmina. Il più piccolo sembra essere l'unico interessato a proseguire l'attività del padre. «Ha 11 anni», dice «viene spesso a guardarmi e fa tante domande. È curioso di sapere e di imparare e io gli rispondo sempre con le stesse parole: Non c'è niente che io debba insegnarti. Questo mestiere lo devi rubare. Guarda, osserva bene e rubami l'arte. Solo così si diventa artigiani».
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