La «Testasghemba» di Mazzocchetti
Il nuovo cd del compositore angolano sarà presentato al teatro Quirino.
Germano Mazzocchetti è un apprezzatissimo compositore di musica applicata (per il teatro, la tv e il cinema). Ma la sua professione non gli ha mai fatto dimenticare la sua passione per la musica in generale, il jazz e la musica etnica su tutto. L’artista pescarese (è nato a Città Sant’Angelo, dove vive ancora la sua famiglia e dove torna appena i suoi impegni romani e in tutta Italia glielo consentono) presenta domani al teatro Quirino di Roma il suo ultimo disco (si veda riquadro a lato). Dalla sua ultima produzione parte l’intervista che segue.
Il suo cd ha un titolo curioso: «Testasghemba», a cosa si riferisce?
«E’ un titolo ispirato a un personaggio angolano della mia infanzia. Lui, in dialetto, lo chiamavano cocciasturta, titolo che ho dovuto adattare. Era un singolare personaggio, un calzolaio filosofo, uno di quei caratteristici paesani che ormai si stanno perdendo, purtroppo. Ho di lui un ricordo forte anche se dai contorni vaghi: è morto quando io avevo 7-8 anni. Nel disco ogni brano è illustrato da un disegno di Michelangelo Pace, il personaggio non somiglia a cocciasturta, ma è una citazione costante. Devo dire che Città Sant’Angelo compare in altri due brani, il primo è “Piazza Garibaldi”, e il secondo è “Fanti e santi” una citazione del canto che si faceva il giovedì santo nel mio paese».
E’ un concept album?
«No, ma ha una matrice comune, degli stilemi meridionali, mediterranei, anche se quest’ultimo termine è ormai un po’ inflazionato».
Cos’è questa serata al Quirino?
«Testasghemba è un disco che con il teatro c’entra poco anche se un paio di brani sono tratti da spettacoli teatrali e riarrangiati per questa occasione. Questa presentazione è stata una casualità. Io stavo cercando un teatro, giugno è l’ultimo mese in cui l’Ente teatrale italiano gestirà il Quirino, dal prossimo passerà a una gestione privata. Allora abbiamo pensato a una serata così, una sorta di passaggio di consegne».
La sua attività teatrale è comunque preminente.
«Certo, lavoro per il teatro da 31 anni, dalla Rappresentazione della passione all’Aquila di Calenda, era il 1978. Il disco non è concepito come un disco di musica di scena ma nel mio modo di scrivere il riferimento al teatro credo ci sia sempre. Nelle mie pagine una certa forma di musica legata alla parola o all’immagine, che evoca qualche immagine o sensazione extramusicale c’è spessissimo, è una cosa assolutamente inconscia».
Sempre a proposito di teatro su cosa sta lavorando in questo periodo?
«Il più recente spettacolo, un mese fa, è stato un “Edipo re” con la regia di Tonino Calenda e con Branciaroli. Sto per fare, invece, un recital di Leo Gullotta, basato su brani scelti di scrittori e poeti siciliani dal titolo “Minnazza” (la minna è la tetta in siciliano), per la regia di Fabio Grossi. Leo Gullotta sarà in scena con tre fisarmonicisti che suonano dal vivo. Il debutto ci sarà a Benevento».
Ha un certo feeling con gli scrittori siciliani, per Luca Zingaretti ha curato le musiche di Lighea di Tomasi di Lampedusa...
«Sì, ma ne ho fatti tanti. Ho fatto molto Pirandello, per esempio. Con i siciliani non lo so se c’è un feeling, di certo mi trovo particolarmente a mio agio con loro e soprattutto amo moltissimo la Sicilia. Siracusa e Catania in particolare ma a me viene il mal di Sicilia quando vado via da lì, soprattutto quando torno da Siracusa».
Lei ha scritto molto anche per il cinema e la tv (su tutto la serie Carabinieri). Quale pensa sia il ruolo della musica in questi linguaggi?
«In teatro si fanno anche degli spettacoli dove non c’è neanche una nota. Per tutto il resto la musica è sicuramente importante, ma dipende anche da come viene usata. Un compositore magari scrive pezzi per un film che non vengono montati per niente o vengono mixati “bassi”, quindi lo spettatore non li avverte nemmeno. L’importanza della musica è quella che dà ad essa il regista. Non dipende da noi compositori. Per altro oggi c’è l’abitudine, soprattutto nel cinema ma sempre di più anche nella tv, di usare molti brani di repertorio per cui le musiche originali sono ridotte all’osso».
E’ una questione di costi, di mode, di cosa?
«Credo sia fondamentalmente una questione di mode, oggi c’è questa scelta del repertorio».
Ma quale ruolo annette alla musica?
«Il teatro è fatto di diversi linguaggi che concorrono al risultato. La musica ha la stessa dignità che hanno i costumi, le scene, le luci... Il deus ex machina è ovviamente il regista, che è l’autore dello spettacolo. La musica è un linguaggio a parte che concorre, con gli altri, alla realizzazione dell’opera. E’ chiaro che poi c’è anche il teatro musicale, la commedia musicale, e lì, invece, se la musica non è buona non c’è niente da fare».
Il suo cd ha un titolo curioso: «Testasghemba», a cosa si riferisce?
«E’ un titolo ispirato a un personaggio angolano della mia infanzia. Lui, in dialetto, lo chiamavano cocciasturta, titolo che ho dovuto adattare. Era un singolare personaggio, un calzolaio filosofo, uno di quei caratteristici paesani che ormai si stanno perdendo, purtroppo. Ho di lui un ricordo forte anche se dai contorni vaghi: è morto quando io avevo 7-8 anni. Nel disco ogni brano è illustrato da un disegno di Michelangelo Pace, il personaggio non somiglia a cocciasturta, ma è una citazione costante. Devo dire che Città Sant’Angelo compare in altri due brani, il primo è “Piazza Garibaldi”, e il secondo è “Fanti e santi” una citazione del canto che si faceva il giovedì santo nel mio paese».
E’ un concept album?
«No, ma ha una matrice comune, degli stilemi meridionali, mediterranei, anche se quest’ultimo termine è ormai un po’ inflazionato».
Cos’è questa serata al Quirino?
«Testasghemba è un disco che con il teatro c’entra poco anche se un paio di brani sono tratti da spettacoli teatrali e riarrangiati per questa occasione. Questa presentazione è stata una casualità. Io stavo cercando un teatro, giugno è l’ultimo mese in cui l’Ente teatrale italiano gestirà il Quirino, dal prossimo passerà a una gestione privata. Allora abbiamo pensato a una serata così, una sorta di passaggio di consegne».
La sua attività teatrale è comunque preminente.
«Certo, lavoro per il teatro da 31 anni, dalla Rappresentazione della passione all’Aquila di Calenda, era il 1978. Il disco non è concepito come un disco di musica di scena ma nel mio modo di scrivere il riferimento al teatro credo ci sia sempre. Nelle mie pagine una certa forma di musica legata alla parola o all’immagine, che evoca qualche immagine o sensazione extramusicale c’è spessissimo, è una cosa assolutamente inconscia».
Sempre a proposito di teatro su cosa sta lavorando in questo periodo?
«Il più recente spettacolo, un mese fa, è stato un “Edipo re” con la regia di Tonino Calenda e con Branciaroli. Sto per fare, invece, un recital di Leo Gullotta, basato su brani scelti di scrittori e poeti siciliani dal titolo “Minnazza” (la minna è la tetta in siciliano), per la regia di Fabio Grossi. Leo Gullotta sarà in scena con tre fisarmonicisti che suonano dal vivo. Il debutto ci sarà a Benevento».
Ha un certo feeling con gli scrittori siciliani, per Luca Zingaretti ha curato le musiche di Lighea di Tomasi di Lampedusa...
«Sì, ma ne ho fatti tanti. Ho fatto molto Pirandello, per esempio. Con i siciliani non lo so se c’è un feeling, di certo mi trovo particolarmente a mio agio con loro e soprattutto amo moltissimo la Sicilia. Siracusa e Catania in particolare ma a me viene il mal di Sicilia quando vado via da lì, soprattutto quando torno da Siracusa».
Lei ha scritto molto anche per il cinema e la tv (su tutto la serie Carabinieri). Quale pensa sia il ruolo della musica in questi linguaggi?
«In teatro si fanno anche degli spettacoli dove non c’è neanche una nota. Per tutto il resto la musica è sicuramente importante, ma dipende anche da come viene usata. Un compositore magari scrive pezzi per un film che non vengono montati per niente o vengono mixati “bassi”, quindi lo spettatore non li avverte nemmeno. L’importanza della musica è quella che dà ad essa il regista. Non dipende da noi compositori. Per altro oggi c’è l’abitudine, soprattutto nel cinema ma sempre di più anche nella tv, di usare molti brani di repertorio per cui le musiche originali sono ridotte all’osso».
E’ una questione di costi, di mode, di cosa?
«Credo sia fondamentalmente una questione di mode, oggi c’è questa scelta del repertorio».
Ma quale ruolo annette alla musica?
«Il teatro è fatto di diversi linguaggi che concorrono al risultato. La musica ha la stessa dignità che hanno i costumi, le scene, le luci... Il deus ex machina è ovviamente il regista, che è l’autore dello spettacolo. La musica è un linguaggio a parte che concorre, con gli altri, alla realizzazione dell’opera. E’ chiaro che poi c’è anche il teatro musicale, la commedia musicale, e lì, invece, se la musica non è buona non c’è niente da fare».