Renato Curi premiato nei primi anni Settanta

La vedova Curi: «Il mio Renato 30 anni dopo»

«Fatalità e negligenza all’epoca ma ancora oggi si muore sui campi di gioco»

PESCARA. Sono passati 30 anni dalla morte di Renato Curi. Domani cadrà l’anniversario di quel 30 ottobre 1977 in cui il centrocampista pescarese si è accasciato al suolo durante Perugia-Juventus e se n’è andato per sempre. Perugia lo ricorda oggi con un convegno e domani con una messa a suffragio. A Pescara vive la vedova, la signora Clelia Bucciacchio. Che, a distanza di 30 anni, ha accettato di ricordare la figura del marito.

 Signora, ricorda quel 30 ottobre del 1977?
 «Come se fosse ieri. Ero allo stadio. Seguivo con lo sguardo mio marito. L’ho visto accasciarsi a terra».

 Ha avuto subito la percezione della gravità dell’accaduto?
 «Non proprio. Ma mi sono precipitata negli spogliatoi. Lui era già stato trasportato in ospedale. E quando sono arrivata lì mi hanno comunicato la notizia».
 
 Di che cosa è morto suo marito? Che cosa le hanno detto?
 «Ha ceduto il cuore».
 Aveva problemi?
 «No, era nel pieno della salute. Non si era mai lamentato di nulla».
 
 Quel giorno allo stadio c’era anche sua figlia, Sabrina?
 
«No, la lasciai da un’amica. Renato aveva detto di non portarla, perché ci sarebbe stata tanta gente per la presenza della Juve».
 
 Poi, nacque Renato.
 «Sì, ero incita di nuovo quando è morto mio marito. Ma non lo sapevo. Ho partorito otto mesi dopo».
 
 Come ha fatto a crescere due figli?
 «Lavorando. E con l’aiuto della famiglia. Qualche soldo l’ho avuto dall’assicurazione. Ma siamo andati avanti, soprattutto, con il lavoro».
 
 Oggi come descriverebbe suo marito?
 «Una persona socievole e sorridente. E, al tempo stesso, riservata».
 Aveva dei sogni?
 «Era giovane, non ha avuto il tempo di coltivarli».
 
 Fatalità o negligenza: per che cosa è morto?
 «Entrambe le cose. A quei tempi non c’erano i controlli approfonditi di oggi. Ma, a quanto vedo e sento, la gente muore ancora in mezzo al campo».
 
 Ha sentito della scomparsa di Puerta, a Siviglia?
 «Ho visto qualcosa in televisione, ma all’inizio non mi sono resa conto della gravità del fatto».
 Ha mai collegato la morte di suo marito al doping?
 «Renato non mi ha mai detto nulla di strano. E, comunque, io non sono mai entrata negli spogliatoi. Non mi va di parlare di cose che non conosco. Comunque, lì dove circolano tanti soldi c’è sempre poco rispetto».
 
 Trenta anni fa non c’erano le veline, ma i calciatori facevano lo stesso la bella vita?
 «All’epoca, nel calcio, non circolavano tanti soldi come oggi. Certo, si guadagnava bene in rapporto ad uno stipendio medio di un operaio. Non le cifre di adesso».
 
 Suo marito era pescarese.
 «Sì, era nato in provincia di Ascoli, ma a Pescara è arrivato che aveva 2-3 anni, dal momento che la sua famiglia si era trasferita».
 Crede che Pescara abbia dimenticato Renato Curi?
 «E’ una domanda che non mi sono mai posta. Mi sarebbe dispiaciuto se fosse stato dimenticato a Perugia. E’ lì che aveva i migliori amici e che ha vissuto le migliori fortune calcistiche».
 
 E Perugia l’ha dimenticato?
 «Assolutamente no. Ogni anno lo hanno ricordato».
 Chi le è stato più vicino?
 «Quel Perugia era un gruppo di amici. E devo dire che tutti, e dico tutti, mi sono stati vicino. A me e ai miei figli. Che sono cresciuti con l’affetto di quel grande Perugia. Da Vannini ad Agroppi, passando per Sollier, Ceccarini e tutti gli altri, dirigenti e allenatori, sono stati i genitori dei miei figli».
 
 Chi era il miglior amico di suo marito?
 «Credo Vannini, ma non vorrei fare un torto agli altri. Pensi che la settimana scorsa è venuto il massaggiatore, Luchini, a Pescara, con il Perugia, e mi ha chiamato per salutarmi».
 
 E’ rimasta tifosa del Perugia.
 «Certamente, lo seguo sempre. Seguo gli amici di mio marito. La domenica sera vedo sempre che cosa ha fatto Novellino o gli altri personaggi legati a quel gruppo».
 
 Parla di Renato Curi come se fosse ancora vivo.
 «Ne parlo, perché il presidente D’Attoma (è scomparso qualche anno fa, ndr) diceva sempre che Renato non era solo mio marito, ma un uomo che era entrato nel cuore di tutti».
 
 Quali erano le sue passioni?
 «La fotografia, la chitarra e il modellismo».
 Ha mai pensato di restare a vivere a Perugia?
 «Per un paio di anni sono rimasta lì. Poi, sono tornata a Pescara».
 
 Che, però, non ha più ricordato il figlio adottivo arrivato fino alla serie A.
 «All’inizio facevano un torneo allo stadio. E mi hanno invitato. Poi, qualche anno fa, mi hanno chiamato per presenziare a un torneo giovanile al Poggio degli Ulivi. Ma era gente di Roma ad organizzare la manifestazione».
 
 C’era la Renato Curi.
 «C’era, è vero. Era la vecchia Marconi dove Renato è cresciuto calcisticamente. E’ da lì che ha preso il volo verso Giulianova».
 Si ricorda quel periodo?
 «Certamente, aveva 16-17 anni quando è passato al Giulianova. Ricordo che viaggiava tutti i giorni insieme a Roberto Ciccotelli e Sonsini».
 
 Poi?
 «E’ stato acquistato dal Como, in serie B, dove è rimasto un anno, con Marchioro. La società, poi, l’ha ceduto al Perugia. Renato e Vannini, in comproprietà (in cambio di Adriano Lombardi, ndr). Con il Grifone ha conquistato la promozione in serie A e la dirigenza, capitanata da D’Attoma, l’ha riscattato. Ricordo il primo anno in serie A con il Perugia. E, soprattutto, il gol segnato alla Juventus. Una soddisfazione per Renato».
 
 Chi l’aveva voluto al Perugia?
 «Mister Castagner».
 Gli si stavano aprendo le porte della Nazionale.
 «Ha giocato in Nazionale (era quella di B, ndr), una partita contro il Belgio. C’erano anche Pruzzo e Tardelli con lui. Conservo ancora quella divisa azzurra».
 
 Come descriverebbe Renato Curi come giocatore?
 «Una mezzala. Sapeva giocare a pallone. Era un giocatore tecnico, ma, al tempo stesso, correva. Correva tanto in mezzo al campo».