L'editoriale
Tempi duri, aspettiamo il miracolo
Da qualche mese uno spettro si aggira nei piani alti del nostro esecutivo: quello delle politiche europee che rischiano di mutare radicalmente
Se ne parla poco, ma è bene che gli italiani e gli abruzzesi lo tengano a mente. Magari per tenersi pronti davanti alle eventuali brutte novità autunnali. Da qualche mese uno spettro si aggira nei piani alti del nostro esecutivo. Quello delle politiche europee che rischiano di mutare radicalmente. Su impulso di alcuni nostri partner, a cominciare dalla ferrea Germania, sempre più decisi a chiedere un paio di cose che potrebbero ripercuotersi fortemente sui già precari equilibri finanziari del nostro sistema. Anzitutto, chiedono questi paesi di cominciare a valutare più realisticamente i rischi legati al possesso dei nostri titoli di Stato. E Dio solo sa quanti ce ne sono nelle pancia del sistema bancario. Secondariamente, di stoppare definitivamente quel Quantitative Easing (QE) sponsorizzato da Mario Draghi che, sinora, ha permesso alla Banca centrale europea (Bce) di acquistare a man bassa titoli di stato (e altro) dalle stesse banche. Un modo per rinvigorire il sistema del credito, incentivando i prestiti e dare fiato all’economia. Gli analisti continuano a lanciare allarmi preoccupati davanti a questa prospettiva. Perché se queste idee cominciassero a farsi largo e a tradursi in realtà sarebbero guai seri per l’Italia. La ragione è chiara e semplice: lo spread maledetto ricomincerebbe a salire, facendo schizzare per esempio il valore dei mutui, con tutto quello che ciò potrebbe significare per risparmiatori e famiglie. Si tratta di uno scenario per niente tranquillo. Che aggiungerebbe problemi a quelli già provocati dall’asfittica situazione della nostra economia, dalle difficoltà del mercato del lavoro e della nostra finanza pubblica. Perdipiù in uno scenario di ristrettezze visto che dietro ci lasciamo una fase a livello internazionale tutto sommato favorevole ma di cui purtroppo non siamo riusciti ad approfittare. Naturalmente, a differenza di altri paesi che, invece, sono stati capaci di rimettersi in carreggiata o, addirittura, a rilanciare le proprie sorti. Colpa sicuramente degli atavici ritardi del sistema-Italia, frenato dalle corporazioni, dalla burocrazia e dalle incapacità storiche della nostra borghesia imprenditoriale. Ma colpa anche di una classe politica che, a tutti i livelli, negli ultimi anni è riuscita al massimo a promettere (mari e monti) senta tuttavia riuscire a concretizzare quelle misure di cambiamento che, dalla finanza alle infrastrutture, dalla ricerca allo sfruttamento delle risorse naturali e paesaggistiche, da decenni si continuano a reclamare. Con i risultati che tutti vediamo. Secondo i dati forniti dalla Direzione generale per gli affari economici e finanziari di Bruxelles (Ecfin), il Prodotto interno lordo (pil) dei paesi dell’eurozona dovrebbe crescere dell’1,7% nel 2017 e dell’1,8% nel 2018. E l’Italia? Noi portiamo a casa un risultato addirittura sotto l’1 per cento, attestandoci su un modesto +0,9 nel 2017 e un poco migliore +1,1 nel 2018. Notizie poco rosee anche sul fronte del debito pubblico. Che, sempre secondo i dati di Bruxelles, dovrebbe innalzarsi dal 132,6% del Pil nel 2016 al 133,1% nel 2017. Salvo, secondo fonti del nostro governo, riscendere al 132,5% nel 2018. Ecco, questo dicono le cifre. Che per ottenere una raddrizzata - a cominciare dal deficit pubblico attestatosi nel 2016 al 2,4% ma destinato, almeno nelle intenzioni dell’esecutivo, ad essere dimezzato all’1,2 nel 2018 - fanno già ipotizzare a Palazzo Chigi una manovra finanziaria di tagli di bilancio pari a circa 16 miliardi. A danno sicuramente della capacità di spesa, vitale per l’efficienza dei servizi pubblici e di quelle politiche solidali necessarie per soccorrere i cittadini colpiti dalla crisi. Politiche che tanti cittadini continuano ad invocare sperando magari nel classico miracolo all’italiana o in una qualche geniale trovata ministeriale.
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