Tutti i colori di Kind of Blue
Un libro sul disco jazz più famoso che compie mezzo secolo.
Il 2009 non è stato solo l’anno del quarantennale di Woodstock e del ventennale della caduta del Muro di Berlino. Cinquant’anni fa veniva pubblicato il disco di musica jazz più venduto della storia (4 miloni di copie solo negli Usa) e, secondo la quasi unanimità della critica, anche il più significativo per lo sviluppo della musica afro-americana: Kind of Blue di Miles Davis.
L’album (si legga la scheda) fu registrato in due sole sedute, il 2 marzo e il 22 aprile del 1959, a New York e contiene cinque brani incisi da un gruppo di sei musicisti insieme con Davis, il grande trombettista nero americano morto nel 1991 all’età di 65 anni. Un album rivoluzionario quello di Davis - che suonò per due volte a Pescara Jazz nel 1973 e nel 1986 - di cui la Columbia ha celebrato il mezzo secolo pubblicando un’edizione di lusso, con tre inediti e un libro illustrato.
Alla storia di Kind of Blue ha dedicato un libro, «Thle Blue Moment. Miles Davis’s Kind of Blue and the Remaking of Modern Music» (Faber & Faber, 320 pagine, 14.99 sterline) il giornalista inglese, Richard Williams, ex direttore del Melody Maker attualmente al Guardian, che analizza gli effetti prodotti da quei 40 minuti di musica sul panorama culturale del secondo Novecento. Del libro (nel 2010 uscirà in Italia dal Saggiatore) e della sua perdurante influenza culturale Williams parla in questa intervista al Centro.
Che cosa l’ha attratta della musica di Kind of Blue quando, da ragazzo, l’ha sentita per la prima volta, come scrive nel libro, «dalla radio a valvole della mia cucina»?
«Il modo migliore per descrivere la sensazione che provai è questa: quella musica suonava moderna in una maniera diversa da tutte le altre. Era come vedere, per la prima volta, una macchina sportiva di lusso. Era “musica soprtiva di lusso” senza tutte le vecchie decorazioni».
In che modo Kind of Blue cambiò il modo di suonare e ascoltare il jazz?
«Miles Davis s’era già conquistata la fama di un innovatore del jazz. La prima reazione a Kind of Blue fu l’adozione della forma modale: i compositori iniziarono a ridurre il numero di accordi che usavano, dando così spazio maggiore ai musicisti per sviluppare idee e improvvisazioni al di là dei limiti delle vecchie sequenze di accordi».
In che modo quell’album influenzò il panorama culturale dell’epoca: la letteratura e l’arte oltre alla musica?
«Kind of Blue fu una risposta al clima intellettuale prevalente negli anni dell’immediato dopoguerra, così come lo furono i romanzi di Albert Camus (naturalmente Lo straniero) e Alberto Moravia (La Noia, in particolare) e i film di Federico Fellini (La Dolce Vita) Michelangelo Antonioni (La Notte, L’Eclisse, L’Avventura). I soggiorni di Davis in Europa, in particolare nel 1949 (quando incontrò Sartre e Juliette Greco) e nel 1957 (quando registrò la colonna sonora del film di Louis Malle, L’ascensore per il patibolo), ebbero un impatto profondo sulla sua visione del mondo. Anche se all’epoca era alla ricerca di un suono africano, Kind of Blue esprimeva un modo di sentire profondamente influenzato dal pensiero e dallo stile europei».
Un pezzo di musica o una canzone oggi potrebbe mai avere lo stesso tipo di effetto sulla società?
«Sarebbe bello pensare che una cosa del genere potesse accadere di nuovo oggi. Ma è difficile immaginarlo. Forse fra 50 anni: chissà?».
Nel corso degli anni, molti gruppi e artisti solisti di musica rock hanno detto di essere stati fortemente influenzati da Kind of Blue. In quali casi, secondo lei, queste influenze sono più visibili?
«Nelle opere di quelli che si dedicavano a lunghe forme di improvvisazione sulla base di strutture armoniche semplici (al di là dei blues di dodici battute). Non era il suono di quell’album che questi artisti copiavano ma il senso di libertà offerto dalle forme di improvvisazione modale. E, a questo proposito, va detto che è molto più facile per un musicista rock improvvisare su uno o due accordi piuttosto che sulla base della stuttura AABA composta da 32 battute tipica delle canzoni di Broadway. L’uso del tema di So What come fonte ispirazione di un brano di James Brown come Cold Sweat è stato vitale per lo sviluppo della disco music e del funk».
Che posto occupa Kind of Blue nell’opera di Miles Davis? E’ più importante di album come Bitches Brew o Birth of the Cool o Nefertiti?
«Miles si vantava di aver cambiato il corso della musica per quattro o cinque volte. Secondo me, Kind of Blue ha avuto un influsso più profondo di quello di qualsiasi altro dei suoi dischi. Il gruppo di album incisi per la Prestige (Workin’, Steamin’, Cookin’ e Relaxin’) sono stati anche loro importanti, così come i tre capolavori registrati con Gil Evans (Miles Ahead, Sketches of Spain e Porgy and Bess) e i due album in cui con maggiore decisione saldò il legame con il rock: In a Silent Way e Bitches Brew. Alcuni magari sosterranno che On the Corner e Get Up with It sono dischi altrettanto importanti. Ma, secondo me, la musica fatta con il quintetto con Wayne Shorter, Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams, fra il 1963 e il 1968 (in particolare il cofanetto con i concerti registrati al Plugged Nickel nel 1965) rappresentano il punto di evoluzione più alto del jazz come forma d’arte collettiva. Siamo davvero fortunati ad avere tutti questi album».
Si emoziona ancora come quando era un ragazzo quando ascolta oggi Kind of Blue?
«Sì. E questo mi fa pensare che il motivo originario della mia attrazione per quel disco dipendesse dalle qualità musicali intrinseche dell’album più che dal suo stile. Quel disco mi sembra, ancora oggi, bellissimo e incredibilmente moderno. E posso tranquillamente affermare che, anche dopo averlo ascoltato migliaia di volte e in condizioni tanto diverse, riesco ancora a trovarci delle cose nuove».
L’album (si legga la scheda) fu registrato in due sole sedute, il 2 marzo e il 22 aprile del 1959, a New York e contiene cinque brani incisi da un gruppo di sei musicisti insieme con Davis, il grande trombettista nero americano morto nel 1991 all’età di 65 anni. Un album rivoluzionario quello di Davis - che suonò per due volte a Pescara Jazz nel 1973 e nel 1986 - di cui la Columbia ha celebrato il mezzo secolo pubblicando un’edizione di lusso, con tre inediti e un libro illustrato.
Alla storia di Kind of Blue ha dedicato un libro, «Thle Blue Moment. Miles Davis’s Kind of Blue and the Remaking of Modern Music» (Faber & Faber, 320 pagine, 14.99 sterline) il giornalista inglese, Richard Williams, ex direttore del Melody Maker attualmente al Guardian, che analizza gli effetti prodotti da quei 40 minuti di musica sul panorama culturale del secondo Novecento. Del libro (nel 2010 uscirà in Italia dal Saggiatore) e della sua perdurante influenza culturale Williams parla in questa intervista al Centro.
Che cosa l’ha attratta della musica di Kind of Blue quando, da ragazzo, l’ha sentita per la prima volta, come scrive nel libro, «dalla radio a valvole della mia cucina»?
«Il modo migliore per descrivere la sensazione che provai è questa: quella musica suonava moderna in una maniera diversa da tutte le altre. Era come vedere, per la prima volta, una macchina sportiva di lusso. Era “musica soprtiva di lusso” senza tutte le vecchie decorazioni».
In che modo Kind of Blue cambiò il modo di suonare e ascoltare il jazz?
«Miles Davis s’era già conquistata la fama di un innovatore del jazz. La prima reazione a Kind of Blue fu l’adozione della forma modale: i compositori iniziarono a ridurre il numero di accordi che usavano, dando così spazio maggiore ai musicisti per sviluppare idee e improvvisazioni al di là dei limiti delle vecchie sequenze di accordi».
In che modo quell’album influenzò il panorama culturale dell’epoca: la letteratura e l’arte oltre alla musica?
«Kind of Blue fu una risposta al clima intellettuale prevalente negli anni dell’immediato dopoguerra, così come lo furono i romanzi di Albert Camus (naturalmente Lo straniero) e Alberto Moravia (La Noia, in particolare) e i film di Federico Fellini (La Dolce Vita) Michelangelo Antonioni (La Notte, L’Eclisse, L’Avventura). I soggiorni di Davis in Europa, in particolare nel 1949 (quando incontrò Sartre e Juliette Greco) e nel 1957 (quando registrò la colonna sonora del film di Louis Malle, L’ascensore per il patibolo), ebbero un impatto profondo sulla sua visione del mondo. Anche se all’epoca era alla ricerca di un suono africano, Kind of Blue esprimeva un modo di sentire profondamente influenzato dal pensiero e dallo stile europei».
Un pezzo di musica o una canzone oggi potrebbe mai avere lo stesso tipo di effetto sulla società?
«Sarebbe bello pensare che una cosa del genere potesse accadere di nuovo oggi. Ma è difficile immaginarlo. Forse fra 50 anni: chissà?».
Nel corso degli anni, molti gruppi e artisti solisti di musica rock hanno detto di essere stati fortemente influenzati da Kind of Blue. In quali casi, secondo lei, queste influenze sono più visibili?
«Nelle opere di quelli che si dedicavano a lunghe forme di improvvisazione sulla base di strutture armoniche semplici (al di là dei blues di dodici battute). Non era il suono di quell’album che questi artisti copiavano ma il senso di libertà offerto dalle forme di improvvisazione modale. E, a questo proposito, va detto che è molto più facile per un musicista rock improvvisare su uno o due accordi piuttosto che sulla base della stuttura AABA composta da 32 battute tipica delle canzoni di Broadway. L’uso del tema di So What come fonte ispirazione di un brano di James Brown come Cold Sweat è stato vitale per lo sviluppo della disco music e del funk».
Che posto occupa Kind of Blue nell’opera di Miles Davis? E’ più importante di album come Bitches Brew o Birth of the Cool o Nefertiti?
«Miles si vantava di aver cambiato il corso della musica per quattro o cinque volte. Secondo me, Kind of Blue ha avuto un influsso più profondo di quello di qualsiasi altro dei suoi dischi. Il gruppo di album incisi per la Prestige (Workin’, Steamin’, Cookin’ e Relaxin’) sono stati anche loro importanti, così come i tre capolavori registrati con Gil Evans (Miles Ahead, Sketches of Spain e Porgy and Bess) e i due album in cui con maggiore decisione saldò il legame con il rock: In a Silent Way e Bitches Brew. Alcuni magari sosterranno che On the Corner e Get Up with It sono dischi altrettanto importanti. Ma, secondo me, la musica fatta con il quintetto con Wayne Shorter, Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams, fra il 1963 e il 1968 (in particolare il cofanetto con i concerti registrati al Plugged Nickel nel 1965) rappresentano il punto di evoluzione più alto del jazz come forma d’arte collettiva. Siamo davvero fortunati ad avere tutti questi album».
Si emoziona ancora come quando era un ragazzo quando ascolta oggi Kind of Blue?
«Sì. E questo mi fa pensare che il motivo originario della mia attrazione per quel disco dipendesse dalle qualità musicali intrinseche dell’album più che dal suo stile. Quel disco mi sembra, ancora oggi, bellissimo e incredibilmente moderno. E posso tranquillamente affermare che, anche dopo averlo ascoltato migliaia di volte e in condizioni tanto diverse, riesco ancora a trovarci delle cose nuove».