La neve di Joyce nella nostra primavera

31 Marzo 2020

C’è qualcosa di tremendo che ci ferma nei nostri passi e ci invita a pensare nei giorni del virus. Non è solo l’aritmetica giornaliera degli infettati e dei morti ma anche il modo in cui l’epidemia colpisce: senza riguardo per la ricchezza e il gradino che ciascuno di noi occupa nella scala della vanità sociale. È una pandemia democratica, questa del coronavirus, come lo sono le sventure naturali. Ricorda la neve di quel racconto di James Joyce che chiude “Gente di Dublino”. «Sì», scrive lo scrittore irlandese nel finale di quella novella, «i giornali avevano ragione: nevicava in tutta l’Irlanda. La neve cadeva su ogni punto dell’oscura pianura centrale, sulle colline senza alberi, cadeva lenta sulla palude di Allen e, più a ovest, sulle onde scure e tumultuose dello Shannon. Cadeva anche sopra ogni punto del solitario cimitero sulla collina dove era sepolto Michael Furey. Si ammucchiava fitta sulle croci contorte e sulle lapidi, sulle punte del cancelletto, sui roveti spogli. La sua anima si dissolse lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti». Siamo qui a pensare a quella neve e a sperare nel balsamo impossibile del cielo di una ritrovata primavera.
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