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3 LUGLIO

Oggi, ma nel 1953, nel Gilgit-Baltistan, Hermann Buhl, alpinista austriaco di 29 anni, conquistava, da solo, e senza aiuto delle bombole d’ossigeno, la vetta del Nanga Parbat, di 8126 metri sul livello del mare, nona cima più alta della terra. Tale primato posizionava lo scalatore di Innsbruck (nella foto, particolare, in azione) tra i migliori di tutti i tempi. Il suo alpinismo estremo lo costringeva, pur di riuscire nel cimento, a trascorrere la notte della discesa, in piedi addossato alla parete, al buio, ad 8mila metri, senza sacco da bivacco, riportando il congelamento dei piedi che comporterà l’amputazione di due dita del destro.

Buhl, attivo anche a Macugnaga, nel Verbano-Cusio-Ossola, sulla parete est del Monte Rosa, sarà ritenuto il propugnatore dello stile alpino. Ovvero il sistema di ascensione scevro di respiratori, corde fisse, portatori d’alta quota e campi preinstallati. Buhl, che morirà, sepolto dalla valanga, il 27 giugno 1957, a 33 anni, sul Chogolisa, nel Karakoram, a 7645 metri, e il cui cadavere non verrà ritrovato, sarà il principale ispiratore di Reinhold Messner.

Il più popolare montanaro italiano userà proprio le dure tecniche di salita di Buhl per mettere a segno i suoi svariati successi sui più picchi impervi del globo. Lo stesso Messner, insieme ad Horst Hofler, nel 1998, per la casa editrice CDA& Vivalda, di Torino, darà alle stampe il volume intitolato “Hermann Buhl-in alto senza compromessi”.