CHIETI
«Angelini, vantaggi grazie alle tangenti»
Ecco le motivazioni della condanna a otto anni per l’ex re delle cliniche private: «Così ha contribuito al malgoverno della sanità»
CHIETI. Vincenzo Maria Angelini ha «contribuito, consapevolmente e volontariamente e per trarne anche personale profitto, al riconosciuto diffuso malgoverno della sanità pubblica nella regione». Lo scrivono i giudici della Cassazione nella sentenza con cui confermano la pena a 8 anni di carcere per l’ex re delle cliniche private, ritenuto colpevole della bancarotta del gruppo Villa Pini di Chieti in concorso con la moglie Annamaria Sollecito e la figlia Chiara, condannate – rispettivamente – a 4 anni e 2 anni di reclusione. Le motivazioni, racchiuse in 5 pagine, sono state pubblicate ieri.
In un passaggio del ricorso presentato dalla difesa di Angelini, si sosteneva che «gli erano state negate le attenuanti generiche nonostante lo stesso fosse stato costretto alle contestate distrazioni dalla diffusa corruzione nella sanità abruzzese». Il processo per il crac, infatti, ha preso il via dall’inchiesta sulla sanità regionale condotta dalla procura di Pescara che sfociò negli arresti del 14 luglio 2008 e nelle successive condanne. L’ex re delle cliniche decise di vuotare il sacco, raccontando di aver pagato milioni di euro di tangenti ai politici. Ma, secondo la quinta sezione penale della Suprema corte (presidente Carlo Zaza, relatore Enrico Vittorio Stanislao Scarlini), è corretta la tesi della Corte d’appello dell’Aquila: «Le dazioni di tangenti costituivano anch’esse delle distrazioni dal patrimonio della società, essendo illecite perché volte a costituirsi vantaggi indebiti sui concorrenti». Quanto alla condanna finale, sostiene la Cassazione, i giudici di secondo grado hanno «congruamente motivato la misura della pena». Così come sono stati giudicati «congrui gli aumenti sia per le aggravanti sia per la continuazione, in considerazione della rilevante gravità dei fatti, dei plurimi fallimenti delle società del gruppo, della imponente massa passiva complessiva (150 milioni di euro), e della ragione delle distrazioni, per spese personali e per il pagamento illecito di pubblici funzionari e amministratori». Non ha trovato accoglimento, dunque, la tesi di Angelini secondo cui «i giudici di merito avevano manifestato una particolare acrimonia nei suoi confronti, dimostrando una scarsa serenità di giudizio e infliggendo così una pena davvero eccessiva».
La difesa, passando alle posizioni delle altre due imputate, ha sostenuto che «la funzione vicaria della Sollecito nelle società fallite non poteva comportarne la condanna, considerando che era troppo generico l’accenno a un suo ruolo operativo. Chiara Angelini, invece, era stata amministratrice della clinica Villa Pini per pochissimo tempo e il padre era sempre stato l’unico amministratore di fatto del gruppo e di quella società». Ma i giudici romani non condividono questa linea: «Sulle responsabilità di Sollecito e di Chiara Angelini, infatti, la Corte d’appello ha congruamente osservato che costoro, chiamate a rispondere dei delitti loro ascritti come amministratrici di diritto delle società amministrate di fatto dal congiunto, erano perfettamente consapevoli del modo di costui di condurle – quantomeno della distrazione di somme per spese personali e familiari – essendone le dirette destinatarie, oltre che, per la Sollecito, avendo affiancato il marito nella costruzione e nella gestione del gruppo economico a lui facente capo, fin dall’inizio».
In sostanza, la Cassazione ha confermato la sentenza di secondo grado dichiarando «inammissibili» i motivi di ricorso: sono state annullate solo le pene accessorie, che verranno rideterminate dalla Corte d’appello di Perugia. Per Angelini rischiano di spalancarsi le porte del carcere.
A giorni, quando la procura di Chieti emetterà l’ordine di carcerazione, l’avvocato Vittorio Supino – difensore dell’ex re della sanità privata – chiederà la sospensione dell’esecuzione per gravi motivi di salute. Poi presenterà un’istanza per ottenere la misura alternativa della detenzione domiciliare.
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