Il pm: «Ha ucciso la moglie, va arrestato» Ma i giudici dicono no: «Ipotesi suicidio»
Respinta la richiesta di carcere per Aldo Di Nunzio, pompiere in pensione, indagato per la tragedia di Annamaria D’Eliseo La procura: «Non può essersi impiccata, quei cavi non avrebbero retto il suo peso». Ma gip e Riesame non sono d’accordo
LANCIANO. La procura chiede l’arresto di Aldo Rodolfo Di Nunzio, accusato dell’omicidio della moglie Annamaria D’Eliseo, ma sia il giudice per le indagini preliminari di Lanciano che il tribunale del Riesame dell’Aquila dicono no. Si arricchisce di un nuovo capitolo l’inchiesta sulla tragedia della bidella di 60 anni trovata senza vita il 15 luglio 2022 nel garage-cantina della sua abitazione di contrada Iconicella, dove viveva con il coniuge, un vigile del fuoco in pensione di 71 anni.
LA TESI DELLA PROCURA
Lo scorso 17 luglio il giudice frentano ha rigettato la richiesta di applicazione di custodia cautelare in carcere nei confronti dell’indagato, rilevando l’assenza dei gravi indizi di colpevolezza e del pericolo di reiterazione del reato. Il pm ha presentato appello principalmente per due motivi. Il primo: «Il gip ha omesso di esaminare alcuni documenti, in particolare la relazione tecnica depositata dai carabinieri del Reparto investigazioni scientifiche (Ris) il 7 luglio 2023: i militari hanno sottoposto i cavi elettrici con i quali D’Eliseo si sarebbe impiccata a prove di trazione, rilevando che gli stessi non sono capaci di sopportare un peso superiore ai 57 chilogrammi circa senza rompersi; risulta quindi impossibile che la donna, di peso superiore a 75 chilogrammi, si sia impiccata con questi cavi senza cagionare agli stessi alcuna lesione o deformazione». La seconda ragione: «Le esigenze cautelari si desumono dalla condotta dell’indagato e dalla sua personalità violenta, come emerge dalle indagini e dai precedenti penali». Così il caso è stato discusso davanti ai giudici aquilani: l’indagato si è presentato in aula e ha reso dichiarazioni spontanee, negando ogni addebito e ribadendo che la moglie si è suicidata.
IL NO DEI GIUDICI
Il tribunale del Riesame (presidente Alessandra Ilari, giudice relatore Niccolò Guasconi, giudice Maura Manzi) ha sciolto la riserva lo scorso 14 settembre, rigettando l’appello presentato dal pm. «Al fine di ricostruire gli eventi», scrivono i giudici aquilani, «occorre partire dalla consulenza in atti, dalla quale emerge che D’Eliseo è morta tra le 13.20 e le 14 del 15 luglio 2022, nei minuti immediatamente precedenti ovvero nel corso delle operazioni di salvataggio poste in essere dal 118. La squadra di primo soccorso risulta essere intervenuta alle 13.35, dopo che Di Nunzio aveva contattato il 112 alle 13.08 e dato avviso a uno dei vicini, gridando a gran voce di chiamare un’ambulanza. La causa della morte è di natura asfittica e il cadavere presenta un solco continuo lungo il collo». L’assenza di determinate lesioni «depongono per una scarsa compatibilità con una dinamica di impiccagione con sospensione completa del corpo. Come condivisibilmente osservato dal gip, è però possibile che la morte sia stata causata da un’impiccagione incompleta o comunque senza sospensione integrale del corpo. Ciò consentirebbe peraltro di superare l’argomento derivante dalla relazione del Ris, poiché evidentemente i cavi non sarebbero stati sottoposti a una forza di trazione pari al peso corporeo della defunta».
I DUBBI SULL’INDAGATO
Al tempo stesso, sottolinea il tribunale del Riesame, «non può non rilevarsi che esistono significativi indizi a carico di Di Nunzio, sicuramente meritevoli di approfondimenti investigativi. In particolare vanno rilevate le incongruenze tra gli accertamenti effettuati e quanto da lui dichiarato nell’immediatezza dei fatti. Ad esempio appare non corrispondente al vero che egli abbia rinvenuto la moglie con il cavo elettrico girato 4-5 volte intorno al collo, giacché in quel caso il solco sarebbe stato più d’uno. Analogalmente è da dubitare che egli abbia potuto trovare la moglie sospesa dal suolo di circa 20 centimetri, poiché la dinamica dei fatti è incompatibile con un’impiccagione completa».
«ELEMENTI CONTRADDITORI»
«Allo stato», proseguono i giudici d’appello, «pur tenendo conto delle perplessità che la dinamica dei fatti comporta e delle inesattezze riferite da Di Nunzio (che tuttavia era sicuramente in stato di shock quando ha rinvenuto il corpo della moglie), due elementi appaiono contraddire fortemente la tesi omicidiaria e non consentono, allo stato e salve le integrazioni di indagini che la procura potrà disporre, di ritenere omogeneo il quadro indiziario, pervenendo a quella ragionevole probabilità di attribuibilità del fatto predicata dalla Suprema Corte». Il primo elemento è la «chiamata dei soccorsi, effettuata proprio dall’indagato alle 13.08, ossia in un momento in cui la donna era ancora viva e forse un intervento più tempestivo dei sanitari (arrivati sul luogo dopo 27 minuti dal primo allarme) avrebbe potuto salvarla. Appare irragionevole che un assassino non aspetti neanche il decesso della vittima per mettere in scena un finto suicidio, poiché in tal modo egli avrebbe anche corso il rischio che la donna fosse rianimata e lo indicasse come assassino. In tal proposito, sembra scarsamente credibile che un vigile del fuoco (professione svolta per anni dall’indagato) non si rendesse conto di quanto questo pericolo fosse concreto, avendo egli verosimilmente assistito nella sua carriera a salvataggi effettuati dal 118 in situazioni apparentemente disperate. Del pari poco credibile è che egli abbia ucciso la moglie in un raptus e poi, colto da immediata resipiscenza, abbia chiamato i soccorsi». Il secondo elemento che confligge «con l’ipotesi omicidiaria è la totale assenza di ferite da difesa e di tentativi di allentare la stretta al collo. Va al riguardo osservato come la perizia del pm abbia escluso che la donna fosse sotto l’effetto di sostanze alcoliche o farmaci in grado di alterare la percezione del pericolo. Inoltre va considerato che la donna era alta 165 centimetri e pesava circa 77 chilogrammi, mentre l’indagato ne pesava all’epoca dei fatti circa 87, sicché non vi era un divario di stazza fisica tale da rendere impossibile alla donna di provare a lottare per sopravvivere al tentativo di strangolamento eventualmente poste in essere dall’uomo senza alcun aiuto esterno».
LE CONCLUSIONI
Quanto alle esigenze cautelari, concludono i giudici, «occorre rilevare che è passato oltre un anno dai fatti e non sono state segnalate condotte di Di Nunzio che denotino la probabilità attuale e concreta, non meramente teorica, che egli possa commettere altri delitti della stessa specie di quello qui contestato. Pertanto anche sotto questo profilo il collegio ritiene condivisibile la motivazione formulata dal gip nell’ordinanza appellata».
LA TESI DELLA PROCURA
Lo scorso 17 luglio il giudice frentano ha rigettato la richiesta di applicazione di custodia cautelare in carcere nei confronti dell’indagato, rilevando l’assenza dei gravi indizi di colpevolezza e del pericolo di reiterazione del reato. Il pm ha presentato appello principalmente per due motivi. Il primo: «Il gip ha omesso di esaminare alcuni documenti, in particolare la relazione tecnica depositata dai carabinieri del Reparto investigazioni scientifiche (Ris) il 7 luglio 2023: i militari hanno sottoposto i cavi elettrici con i quali D’Eliseo si sarebbe impiccata a prove di trazione, rilevando che gli stessi non sono capaci di sopportare un peso superiore ai 57 chilogrammi circa senza rompersi; risulta quindi impossibile che la donna, di peso superiore a 75 chilogrammi, si sia impiccata con questi cavi senza cagionare agli stessi alcuna lesione o deformazione». La seconda ragione: «Le esigenze cautelari si desumono dalla condotta dell’indagato e dalla sua personalità violenta, come emerge dalle indagini e dai precedenti penali». Così il caso è stato discusso davanti ai giudici aquilani: l’indagato si è presentato in aula e ha reso dichiarazioni spontanee, negando ogni addebito e ribadendo che la moglie si è suicidata.
IL NO DEI GIUDICI
Il tribunale del Riesame (presidente Alessandra Ilari, giudice relatore Niccolò Guasconi, giudice Maura Manzi) ha sciolto la riserva lo scorso 14 settembre, rigettando l’appello presentato dal pm. «Al fine di ricostruire gli eventi», scrivono i giudici aquilani, «occorre partire dalla consulenza in atti, dalla quale emerge che D’Eliseo è morta tra le 13.20 e le 14 del 15 luglio 2022, nei minuti immediatamente precedenti ovvero nel corso delle operazioni di salvataggio poste in essere dal 118. La squadra di primo soccorso risulta essere intervenuta alle 13.35, dopo che Di Nunzio aveva contattato il 112 alle 13.08 e dato avviso a uno dei vicini, gridando a gran voce di chiamare un’ambulanza. La causa della morte è di natura asfittica e il cadavere presenta un solco continuo lungo il collo». L’assenza di determinate lesioni «depongono per una scarsa compatibilità con una dinamica di impiccagione con sospensione completa del corpo. Come condivisibilmente osservato dal gip, è però possibile che la morte sia stata causata da un’impiccagione incompleta o comunque senza sospensione integrale del corpo. Ciò consentirebbe peraltro di superare l’argomento derivante dalla relazione del Ris, poiché evidentemente i cavi non sarebbero stati sottoposti a una forza di trazione pari al peso corporeo della defunta».
I DUBBI SULL’INDAGATO
Al tempo stesso, sottolinea il tribunale del Riesame, «non può non rilevarsi che esistono significativi indizi a carico di Di Nunzio, sicuramente meritevoli di approfondimenti investigativi. In particolare vanno rilevate le incongruenze tra gli accertamenti effettuati e quanto da lui dichiarato nell’immediatezza dei fatti. Ad esempio appare non corrispondente al vero che egli abbia rinvenuto la moglie con il cavo elettrico girato 4-5 volte intorno al collo, giacché in quel caso il solco sarebbe stato più d’uno. Analogalmente è da dubitare che egli abbia potuto trovare la moglie sospesa dal suolo di circa 20 centimetri, poiché la dinamica dei fatti è incompatibile con un’impiccagione completa».
«ELEMENTI CONTRADDITORI»
«Allo stato», proseguono i giudici d’appello, «pur tenendo conto delle perplessità che la dinamica dei fatti comporta e delle inesattezze riferite da Di Nunzio (che tuttavia era sicuramente in stato di shock quando ha rinvenuto il corpo della moglie), due elementi appaiono contraddire fortemente la tesi omicidiaria e non consentono, allo stato e salve le integrazioni di indagini che la procura potrà disporre, di ritenere omogeneo il quadro indiziario, pervenendo a quella ragionevole probabilità di attribuibilità del fatto predicata dalla Suprema Corte». Il primo elemento è la «chiamata dei soccorsi, effettuata proprio dall’indagato alle 13.08, ossia in un momento in cui la donna era ancora viva e forse un intervento più tempestivo dei sanitari (arrivati sul luogo dopo 27 minuti dal primo allarme) avrebbe potuto salvarla. Appare irragionevole che un assassino non aspetti neanche il decesso della vittima per mettere in scena un finto suicidio, poiché in tal modo egli avrebbe anche corso il rischio che la donna fosse rianimata e lo indicasse come assassino. In tal proposito, sembra scarsamente credibile che un vigile del fuoco (professione svolta per anni dall’indagato) non si rendesse conto di quanto questo pericolo fosse concreto, avendo egli verosimilmente assistito nella sua carriera a salvataggi effettuati dal 118 in situazioni apparentemente disperate. Del pari poco credibile è che egli abbia ucciso la moglie in un raptus e poi, colto da immediata resipiscenza, abbia chiamato i soccorsi». Il secondo elemento che confligge «con l’ipotesi omicidiaria è la totale assenza di ferite da difesa e di tentativi di allentare la stretta al collo. Va al riguardo osservato come la perizia del pm abbia escluso che la donna fosse sotto l’effetto di sostanze alcoliche o farmaci in grado di alterare la percezione del pericolo. Inoltre va considerato che la donna era alta 165 centimetri e pesava circa 77 chilogrammi, mentre l’indagato ne pesava all’epoca dei fatti circa 87, sicché non vi era un divario di stazza fisica tale da rendere impossibile alla donna di provare a lottare per sopravvivere al tentativo di strangolamento eventualmente poste in essere dall’uomo senza alcun aiuto esterno».
LE CONCLUSIONI
Quanto alle esigenze cautelari, concludono i giudici, «occorre rilevare che è passato oltre un anno dai fatti e non sono state segnalate condotte di Di Nunzio che denotino la probabilità attuale e concreta, non meramente teorica, che egli possa commettere altri delitti della stessa specie di quello qui contestato. Pertanto anche sotto questo profilo il collegio ritiene condivisibile la motivazione formulata dal gip nell’ordinanza appellata».