Spostata e senza mansioni, operaia risarcita dalla Sevel di Atessa
Atessa, l’azienda condannata per aver causato disturbi psicologici alla dipendente lasciata senza far niente perché non poteva indossare le scarpe antinfortunistiche
LANCIANO. La Sevel è stata condannata dal tribunale di Lanciano al risarcimento danni e alle spese legali e del consulente tecnico (15mila euro in tutto) per aver demansionato una dipendente causandole un disturbo cronico dell’adattamento, una invalidità permanente e l’impoverimento delle sue capacità lavorative a seguito di pesanti periodi di stress e depressione. La decisione del giudice del lavoro Cristina Di Stefano riguarda una situazione che si è trascinata per due anni a partire dal 2008. La donna, dipendente a tempo indeterminato con mansione di operaia semplice, nel dicembre 2008 è stata trasferita in un nuovo reparto dove, tuttavia, era necessario e obbligatorio l’uso di scarpe antinfortunistiche che, però, la donna non poteva indossare, come accertato anche da prescrizione medica. L’azienda, nonostante le richieste della dipendente, non le ha fornito calzature conformi alla sua patologia.
Di qui l’odissea della donna che, da quel momento, così come si legge in una delle due sentenze riguardanti il caso, è stata lasciata fuori dal reparto di competenza, in «completa inattività, all’interno di un box e per tutta la durata della giornata lavorativa; né le sono state assegnate mansioni compatibili con le prescrizioni mediche». Solo successivamente, e per un breve periodo, le è stata assegnata una mansione appositamente istituita per lei e prima di quel momento inesistente, ovvero riportare su un foglio le anomalie durante la lavorazione dei furgoni. Questa attività le occupava circa un’ora del turno lavorativo, mentre per la restante parte rimaneva sempre inattiva. Una condizione di inspiegabile demansiomento e inattività che ha provocato nell’operaia «gravi disturbi psicologici».
La vita della donna è cambiata a tal punto da aver influito negativamente anche sui suoi rapporti sociali e familiari. Solo nel 2010 è arrivato un nuovo trasferimento di postazione e la consegna di scarpe antinfortunistiche adatte alla patologia della signora. Il giudice ha evidenziato come il datore di lavoro abbia messo in opera, seppur senza la volontà soggettiva di nuocere o svilire la lavoratrice, «una grave e inescusabile negligenza, una mancanza di coordinamento e organizzazione e una trascuratezza particolarmente odiosa, sebbene in alcun modo tesa volontariamente a demolire la ricorrente dal punto di vista psicologico e a provocare il suo allontanamento volontario dalla società».
«Siamo soddisfatti», commenta l’avvocato dell’operaia, Pietro Cotellessa, «perché è stato riconosciuto un danno professionale e una invalidità permanente causati da un comportamento ancora inspiegabile nei confronti di una dipendente che chiedeva soltanto di poter lavorare».
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