Franchini: gli abruzzesi hanno i pugili più forti, su tutti Rocky Marciano 

L’autore napoletano corre con “Il fuoco che ti porti dentro” «Racconto una madre del Sud, un po’ la mia, senza rivalsa»

PESCARA. «Conosco bene il Premio perché lavoro nell’editoria da oltre 40 anni e al Flaiano sono venuto almeno una volta con Margaret Mazzantini, nell’anno in cui vinse Veronesi, ma lo conoscevo già da prima». Lo scrittore napoletano Antonio Franchini col suo bellissimo e furibondo romanzo “Il fuoco che ti porti dentro” (Marsilio), racconto anti-retorico della vita e morte di Angela, donna dal carattere impossibile, madre dell’autore, personaggio respingente ma vitalissimo, è nella terna finalista dei 51° Premi Flaiano Narrativa di Pescara.
Franchini, l’Abruzzo ha un rapporto forte con Napoli, nostra antica capitale. Lei che rapporto ha con l’Abruzzo?
«Un rapporto soprattutto letterario, ovviamente per D’Annunzio, per Flaiano, Silone. Inoltre sono un appassionato di sport da combattimento e gli abruzzesi sono la popolazione pugilistica più forte d’Italia, con un passato glorioso, basti il nome di Rocky Marciano. E ho istintiva simpatia per Pescara, non mi dispiacerebbe viverci, una cittadina col mare e culturalmente vivace, piena di giovani».
In un Paese come l’Italia, in cui la famiglia è spesso rappresentata nel discorso pubblico con sentimentalismo retorico e ipocrita, lei dà un incipit spiazzante al suo romanzo e una rappresentazione fuori canone della figura materna. Non mi vengono in mente altri esempi in letteratura, a lei?
«Il tema del rapporto difficile con la madre è esplorato principalmente dalle scrittrici, così come gli scrittori hanno esplorato il rapporto con il padre. La maggiore tradizione letteraria si ha con la conflittualità tra genitori e figli dello stesso sesso. Si trovano anche numerosi esempi di racconto del conflitto tra figlie femmine e padri, che rappresentano l’autorità, la norma a cui la figlia non vuole sottostare. La relazione meno esplorata nei suoi aspetti difficili, complicati, è proprio quella tra figlio maschio e mamma. Tutta la tradizione poetica legata a questo rapporto evoca nostalgia, eterno rimpianto, tenerezza, affetto profondo. Ungaretti, Quasimodo, Pasolini, nella narrazione o versificazione della figura materna da parte del figlio maschio abbiamo solo esempi di quel tipo».
Angela Izzo è eccessiva, rancorosa, prepotente, ostile, egoista, viscerale, vesuviana, non ha amiche, ma il figlio è «‘o guaglione mio», con lui ha un rapporto di amore-odio. Quanto c’è di autobiografico in questo rapporto?
«Evidentemente tutto, però ho sempre considerato questa scrittura non rigorosamente memorialistica perché l’intento è assolutamente romanzesco. Non ho voluto raccontare il rapporto tra Antonio e la madre ma raccontare la madre, una figura di donna con molte caratteristiche di eccezionalità. In queste pagine non c’è nessun intento risarcitorio, né polemico nei confronto della mamma, non c’è un io alla ricerca di una rivalsa verso la madre, ma un desiderio di comprendere questa donna che ha molte caratteristiche interessanti, attinenti a Napoli, al Meridione, ma a tutta l’Italia, una figura in cui ci si può riconoscere e che alla fine sta simpatica. È un atto d’amore fin dalle prime pagine. Questa sua rancorosità, rabbia, ferocia in parte era reale, in gran parte molto recitata, come c’è una dose di recita in ognuno di noi. Lei ha voluto recitare un ruolo scorretto in un momento in cui, gli anni Sessanta, la figura materna era quella perfetta e rassicurante della pubblicità dei primi beni di consumo. E oggi, in tempi di politicamente corretto, è balsamica una figura così».
Prende il titolo del romanzo da un verso di “Vesuvio” del gruppo operaio I Zezi di Pomigliano d’Arco. È la musica con cui è cresciuto?
«Quella dei Zezi era una musica di impegno civile e ricerca antropologica, come per la Nccp Nuova Compagnia di canto popolare. Gli anni Settanta in cui sono cresciuto sono stati caratterizzati da queste due grandi esperienze, una tradizione che è continuata con Pino Daniele e continua in modo diverso con i rapper».
Lavora nell’editoria. Qual è lo stato di salute della narrativa italiana?
«Sia sul versante commerciale che su quello letterario lo stato di salute è buono, ci sono molti scrittori interessanti, è semmai l’incidenza della letteratura nel mondo contemporaneo a essere molto meno profonda. Si legge in maniera qualitativamente meno durevole, le tracce lasciate dai libri sono meno durevoli di una volta, ma tutto oggi lascia meno impronte nel tempo».
Qual è l’errore più frequente degli aspiranti scrittori? La presunzione che la propria vita sia interessante per il lettore?
«Tutti ritengono che la propria vita sia come un romanzo che vale la pena essere letto. Il problema è semmai voler scrivere senza una preparazione adeguata, senza sacrificio, importanti quanto il talento. E meglio essere lettori che scrittori».
Un consiglio per farsi leggere dalle case editrici?
«Se si frequentano scuole di scrittura importanti alla fine si viene anche letti. Difficile arrivare all’editore se si hanno 60 anni, non si è mai scritto e non si è mai frequentato il mondo dell’editoria. Uno di vent’anni, invece, il modo per farsi leggere prima o poi lo trova».