“Il mio amico Giovanni” Grasso: «Lascio ai ragazzi la memoria di Falcone»
«Sento il pericolo che la scintilla degli occhi di Giovanni e il sorriso di Paolo possano scolorire nel ricordo. A 30 anni dalle stragi, metto le mie memorie nero su bianco e le affido ai ragazzi,...
«Sento il pericolo che la scintilla degli occhi di Giovanni e il sorriso di Paolo possano scolorire nel ricordo. A 30 anni dalle stragi, metto le mie memorie nero su bianco e le affido ai ragazzi, affinché possano sapere». C’è tutto l'impegno morale, civile e politico di Pietro Grasso, accanto alla sua inesauribile passione per la cultura della legalità, nel libro “Il mio amico Giovanni” (Feltrinelli), che l’ex presidente del Senato ha scritto per continuare a condividere con le nuove generazioni la propria esperienza di testimone e protagonista della lotta alla mafia.
«Ho il dovere di raccontare con nuovo vigore e slancio i ricordi di un’esistenza vissuta con Giovanni Falcone, che posso considerare un amico e che ha condizionato la mia vita professionale e familiare», spiega Grasso. Con la prefazione di Roberto Saviano, il libro ripercorre le vicende che hanno scandito la carriera dell’autore, quando era un giovane magistrato, poi giudice a latere del Maxiprocesso di Palermo e procuratore antimafia: un racconto autentico, toccante e appassionato, nel quale emergono i ritratti di Falcone e Borsellino, colleghi ma soprattutto amici che hanno condiviso con Grasso il suo percorso umano e lavorativo. «Voglio evitare che si cada nell’indifferenza e nella rassegnazione, terreno in cui le mafie vecchie e nuove prosperano. E voglio che la speranza che i giovani hanno nel futuro non sia delusa: per questo oggi tutto il mio tempo libero è per loro, cerco sempre di incontrare i ragazzi, anche se questo significa sacrificare tempo ai miei impegni e alla famiglia, ma mia moglie è insegnante e mi comprende», prosegue, «ai giovani offro la mia testimonianza diretta, e racconto storie, che poi sono proprio quelle che restano più impresse. A volte mi capita di incontrare gli stessi ragazzi dopo anni, e che gratificazione quando qualcuno di loro mi dice: oggi se devo scegliere so da che parte stare, da quella della legalità». «Voglio dare la possibilità di conoscere non l’eroe, ma l’uomo Giovanni Falcone: sembrava serioso, distaccato, in realtà la sua diffidenza era uno scudo per capire bene chi aveva davanti. Ma con gli amici era diverso, aveva un incredibile humour inglese e giocava sempre con i nomi», dice Grasso, che non manca di ricordare dell’amico anche «la capacità strategica, di prevedere cose, di capire la mafia nelle sue sfaccettature. Quando tutti brindavano per la conferma della sentenza del Maxiprocesso, nel 1992, lui era perplesso e si aspettava una reazione. O anche dopo il 12 marzo, quando fu ucciso Salvo Lima, Falcone disse che poteva succedere di tutto». Lei ha dichiarato di sentirsi un sopravvissuto. «È così, dovevo tornare con lui il giorno della strage di Capaci, invece all’ultimo minuto trovai un posto in aereo la sera prima. E altre volte la mia vita è stata in pericolo: capita che mi chiedano come io abbia fatto a sopravvivere», prosegue, «spesso mi sento in colpa. Forse se il Maxiprocesso non avesse avuto così successo Giovanni e Paolo sarebbero ancora vivi. Ma poi penso a quanto fossero determinati ad andare avanti in questa guerra. Loro avrebbero continuato e io davanti alle loro bare ho giurato che mi sarei impegnato al massimo». E ora, a che punto siamo nella lotta alla mafia? «La mafia è cambiata, non c’è più il contrasto aperto alle istituzioni, ma il tentativo costante di infiltrarsi nell’economia. I principi alla base però restano: intimidazione e nessun rispetto per la vita». È vero che non si separa mai dall'accendino che le ha regalato Falcone poche settimane prima di morire? «Sì, è sempre nel taschino o nella borsa. Quando mi trovo davanti a una difficoltà lo sfioro e mi dà la forza di andare avanti»
«Ho il dovere di raccontare con nuovo vigore e slancio i ricordi di un’esistenza vissuta con Giovanni Falcone, che posso considerare un amico e che ha condizionato la mia vita professionale e familiare», spiega Grasso. Con la prefazione di Roberto Saviano, il libro ripercorre le vicende che hanno scandito la carriera dell’autore, quando era un giovane magistrato, poi giudice a latere del Maxiprocesso di Palermo e procuratore antimafia: un racconto autentico, toccante e appassionato, nel quale emergono i ritratti di Falcone e Borsellino, colleghi ma soprattutto amici che hanno condiviso con Grasso il suo percorso umano e lavorativo. «Voglio evitare che si cada nell’indifferenza e nella rassegnazione, terreno in cui le mafie vecchie e nuove prosperano. E voglio che la speranza che i giovani hanno nel futuro non sia delusa: per questo oggi tutto il mio tempo libero è per loro, cerco sempre di incontrare i ragazzi, anche se questo significa sacrificare tempo ai miei impegni e alla famiglia, ma mia moglie è insegnante e mi comprende», prosegue, «ai giovani offro la mia testimonianza diretta, e racconto storie, che poi sono proprio quelle che restano più impresse. A volte mi capita di incontrare gli stessi ragazzi dopo anni, e che gratificazione quando qualcuno di loro mi dice: oggi se devo scegliere so da che parte stare, da quella della legalità». «Voglio dare la possibilità di conoscere non l’eroe, ma l’uomo Giovanni Falcone: sembrava serioso, distaccato, in realtà la sua diffidenza era uno scudo per capire bene chi aveva davanti. Ma con gli amici era diverso, aveva un incredibile humour inglese e giocava sempre con i nomi», dice Grasso, che non manca di ricordare dell’amico anche «la capacità strategica, di prevedere cose, di capire la mafia nelle sue sfaccettature. Quando tutti brindavano per la conferma della sentenza del Maxiprocesso, nel 1992, lui era perplesso e si aspettava una reazione. O anche dopo il 12 marzo, quando fu ucciso Salvo Lima, Falcone disse che poteva succedere di tutto». Lei ha dichiarato di sentirsi un sopravvissuto. «È così, dovevo tornare con lui il giorno della strage di Capaci, invece all’ultimo minuto trovai un posto in aereo la sera prima. E altre volte la mia vita è stata in pericolo: capita che mi chiedano come io abbia fatto a sopravvivere», prosegue, «spesso mi sento in colpa. Forse se il Maxiprocesso non avesse avuto così successo Giovanni e Paolo sarebbero ancora vivi. Ma poi penso a quanto fossero determinati ad andare avanti in questa guerra. Loro avrebbero continuato e io davanti alle loro bare ho giurato che mi sarei impegnato al massimo». E ora, a che punto siamo nella lotta alla mafia? «La mafia è cambiata, non c’è più il contrasto aperto alle istituzioni, ma il tentativo costante di infiltrarsi nell’economia. I principi alla base però restano: intimidazione e nessun rispetto per la vita». È vero che non si separa mai dall'accendino che le ha regalato Falcone poche settimane prima di morire? «Sì, è sempre nel taschino o nella borsa. Quando mi trovo davanti a una difficoltà lo sfioro e mi dà la forza di andare avanti»