L'INTERVISTA
Moser: «Dell’Abruzzo conosco tutte le salite Taccone? Un amico»
A Moscufo per presentare il libro “Il camoscio d’Abruzzo”: «Vito veniva sempre quando partecipavo al Giro d’Italia»
MOSCUFO. Francesco va veloce. Di corsa, come quando gareggiava e vinceva su strade e piste di tutto il mondo. È di poche efficaci parole, Francesco da Palù di Giovo, come tutti i montanari. Francesco Moser, classe 1951, il ciclista italiano con più vittorie nel professionismo, 273: tra il 1973 e il 1988 un Giro d’Italia e le classiche monumento, tre Parigi-Roubaix, due Giri di Lombardia, una Freccia Vallone, una Gand-Wevelgem, una Milano-Sanremo, oltre a un campionato del mondo su strada e uno su pista, e il record dell’ora a Città del Messico.
Dopo il ritiro il campione trentino è tornato alle sue montagne, dedicandosi alla produzione di biciclette e alla vigna di famiglia insieme ai figli Francesca, Carlo e Ignazio (ex ciclista, ora attore e personaggio televisivo), avuti dalla moglie Carla Merz, dalla quale ha divorziato dopo un matrimonio ultraquarantennale.
Una notizia che nel luglio scorso ha fatto rumore, non solo sui giornali sportivi. Francesco Moser, oggi agricoltore e imprenditore, è tra gli ex atleti italiani più amati, per le doti di schiettezza, coraggio, tenacia. Gli appassionati di ciclismo lo aspettano a Moscufo, ospite d’onore alla presentazione del libro del giornalista Federico Falcone “Vito Taccone. Il camoscio d’Abruzzo” (Radici Edizioni), sull’impetuoso e genuino campione avezzanese (nella foto in basso) (1940-2007), Frantoio delle idee. Il Centro ha raggiunto Moser telefonicamente per un’intervista volante.
Moser, che ricordo ha di Vito Taccone?
L’ho incontrato molte volte, ma al di fuori delle gare. Quando io sono passato al professionismo lui aveva già smesso. Taccone si è ritirato presto, a trent’anni. Lui era di una decina d’anni più grande di me, ha corso con i miei fratelli Aldo, Enzo e Diego. Con Aldo gareggiava nella stessa squadra, la Vittadello. Aldo era più grande di Taccone, ma ha corso a lungo, si è ritirato a 40 anni. Io in quegli anni ero piccolo, ho conosciuto Vito dopo. Sono stato più volte a fare le sue Gran Fondo, le pedalate che organizzava in Abruzzo. Sono stato nella sua fabbrica dell’Amaro Taccone, e anche nell’azienda del figlio Cristiano, che ci faceva le maglie da corridore. Quando c’erano le tappe del Giro in Abruzzo Vito si faceva vedere sempre».
Ha corso spesso sulle strade abruzzesi. Considerate meno impegnative di quelle alpine, le tappe appenniniche del Giro sulle nostre salite, Blockhaus, Campo Imperatore, Prati di Tivo, lasciano però il segno in classifica.
«Ho bei ricordi. In Abruzzo ho vinto il primo dei miei tre campionati italiani, arrivando primo al Trofeo Matteotti a Pescara nel 1975. E poi ho corso con la Gis Gelati, che era di Teramo. Sul Blockhaus ho preso la maglia rosa l’anno che ho vinto il Giro d’Italia, 1984. Aveva la maglia Fignon, ma il francese proprio in cima si è staccato e io l’ho superato in classifica (la vittoria di tappa andò ad Argentin, ndc). Conosco un po’ tutte le salite abruzzesi, ce ne sono di difficili. Campo Imperatore è più pedalabile, invece il Blockhaus ha sempre fatto danni nel gruppo, i corridori l’hanno sempre trovata una salita difficile. L’anno scorso Hindley ha vinto il Giro proprio sul Blockhaus, nell’unica tappa in cui è successo qualcosa e si sono mossi gli uomini di classifica, mentre nelle altre tappe hanno lasciato andare le fughe».
Che pensa del teatino Giulio Ciccone? E degli altri giovani italiani?
«Ciccone era la speranza. Ha fatto belle cose, però mi aspettavo di più da lui, specialmente dopo la conquista al Giro di quattro anni fa della maglia della montagna, con la vittoria nella classifica scalatori. Lo davo favorito per un Giro, ma poi non ha confermato le attese. Però quest’anno sta facendo bene, secondo posto e una tappa alla Valenciana, ora la Tirreno Adriatico dove si è fatto vedere tra i primi (ieri secondo dietro Roglic, dopo aver attaccato nella tappa Morro d’Oro–Sassotetto, ndc). Eh, in questo momento in Italia siamo scarsi come risultati, non riusciamo a prenderci il Giro».
Tra gli stranieri chi le piace?
«Lo sloveno Pogacar fa cose che gli altri non fanno, è una spanna sopra tutti».
La sua vittoria più bella? E la sconfitta più bruciante?
«Il Giro. Che è una corsa di tre settimane ed è cosa ben diversa dalle classiche di un giorno, che pure sono state importanti, come il record dell’ora. Ma ogni vittoria è stata bella, frutto di tanto lavoro e impegno. La sconfitta più brutta al Mondiale 1978, perso al Nürburgring per tre centimetri, secondo dietro a Knetemann per mezza ruota».
Bartali-Coppi, Gimondi-Motta, negli anni '70-'80 la rivalità Moser-Saronni.
«Adesso siamo amici. Ma in corsa sempre nemici, non si andava d’accordo».
Primo a usare le ruote lenticolari. Si è sentito un pioniere?
«Fu una novità importante che poi hanno seguito tutti. Oggi ci sono tante innovazioni, studi scientifici, tecnologia, diete personalizzate, specifici programmi di allenamento, allenatori che ti seguono. È cambiato e migliorato tutto. Prima si apprendeva per tradizione, io ho imparato vedendo correre i miei fratelli più grandi, ciclisti professionisti. Ho iniziato a gareggiare seguendo loro».