1703: LE CHIESE FURONO RICOSTRUITE DAI «FORESTIERI»

Tre secoli fa «mastri fabricatori» e architetti arrivarono soprattutto da Roma, Napoli e Milano.

L’AQUILA. Pubblichiamo la seconda e ultima parte di un mini-saggio di monsignor Orlando Antonini sul terremoto del 1703 che distrusse L’Aquila e fece migliaia di vittime. Nell’articolo pubblicato ieri monsignor Antonini aveva raccontato la fase dell’emergenza, gli sgravi fiscali (10 anni per L’Aquila), il passaggio dei poteri al commissario del governo dell’epoca, i contrasti fra quest’ultimo e il potere locale, l’avvio della ricostruzione che fu lunghissima (durò almeno 50 anni). Monsignor Antonini, 64 anni, di Villa Sant’Angelo, è vescovo e ad agosto papa Benedetto XVI gli ha affidato la Nunziatura apostolica in Serbia. E’ tra i più insigni studiosi di architetture religiose e urbane in Abruzzo.

Per ciò che concerne la diocesi dell’Aquila, essa al momento del terremoto del 1703 si trovava senza Vescovo.
L’ultimo presule, il De la Cerda, era morto nel 1702 e fino al 1712 governarono la Chiesa locale dapprima il vicario capitolare Francesco Antonelli, rimasto sepolto nel 1703 sotto le macerie della cattedrale, e poi il nuovo vicario capitolare Domenico De Benedictis.
Quando poi nel 1712 fu eletto vescovo Domenico Taglialatela, questi non poté prendere possesso a causa dei non ancora risolti problemi giurisdizionali di fine 1600, sicché passarono altri sette anni sotto amministrazione transitoria: ben 16 anni in tutto, proprio nel periodo decisivo dell’avvio del processo di ricostruzione di San Massimo e delle chiese della città e del contado.

Mentre non mancava, si noti, la dedizione caritativa della Chiesa locale per soccorrere le popolazioni, per la ricostruzione della cattedrale vediamo dapprima il canonico procuratore Ignazio Porcinari impegnare, a due mesi e mezzo dal terremoto, 22 aprile, i mastri fabbricatori milanesi Domenico Cometti, Pietro Longhi e Francesco Visconti, nonché l’aquilano Narducci, a scavare la cattedrale di San Massimo, completamentre crollata con la sua «bella facciata», recuperando entro luglio per 230 ducati colonne, marmi, campane, ferri, ed ammucchiando il tutto nella navata centrale. Nei successivi mesi e anni si susseguono iniziative plurime, come nel 1704 quella per cui il capitolo vende per 25 ducati le pietre di Sant’Antonio ormai crollante, per procurarsi i danari per la riedificazione della cattedrale, fino ad arrivare al 1709, quando si affida all’architetto Sebastiano Cipriani il progetto per il nuovo edificio sacro, iniziandone i lavori nel 1711.

Sarà il vescovo Taglialatela a fornirci, con la sua relatio ad limina del 1722, la prima informazione sulla situazione delle chiese cittadine a vent’anni dal sisma.
Alcune, compresa la Cattedrale, erano praticamente ancora da ricostruire; altre, erano «a ruinis reparatas» come San Quinziano, oppure «ad formam ornatumque decentem redactas»; San Silvestro, che «antiquitate, amplitudine et structura commendatur a multis», era «bene retenta»; altre erano «noviter erectas» ed altre ancora «magnificentius reparatas»; San Marco «nuper reedificata»; la Concezione «reparata et in meliorem formam redacta»; Santa Maria di Paganica «in multis ad meliorem redacta est formam»; Collemaggio, abbellita da «eleganti opere et singulari magnificentia»; San Domenico «noviter a fundamentis magnificentius renovata»; Sant’Agostino «magnificentius reparata» e così via.

Altri particolari, istruttivi per l’oggi in cui si invocano maggiori spazi di partecipazione alle forze operative e culturali locali per la ricostruzione post-terremoto, si riferiscono agli architetti ed artisti, nonché alle imprese edili, che eseguirono materialmente la ricostruzione settecentesca.
Ebbene, la documentazione ci dice che nel 1700 la più parte degli architetti che furono chiamati dagli Aquilani a reinventare e riprogettare i loro edifici sacri crollati furono di fuori, romani in assoluta preponderanza, e tra quelli che andavano per la maggiore in quel frangente storico i Fontana, i Cipriani, i Contini, i Buratti, Barigioni, Ferdinando Fuga.

E altresì gli artisti, scultori e stuccatori che abbellirono le nuove fabbriche, furono forestieri, ticinesi in assoluta preponderanza, ed anche sulmonesi e napoletani.
Quanto alle imprese edili, risulta che anch’esse per la maggior parte furono forestiere, lombarde/milanesi in assoluta preponderanza, delle quali alcune erano sul posto da secoli, ma molte affluirono all’Aquila appunto per la ricostruzione settecentesca.

Ne risultò per la città, nonché per i centri del contado, e pur mantenendosi sostanzialmente sull’identico impianto urbanistico preesistente, una facies architettonica e formale radicalmente nuova: il carattere ancora prettamente medioevale dell’edilizia urbana, sia civile che religiosa, delle quinte e degli scorci stradali e delle facciate di case, chiese e palazzi, scomparve d’incanto, assumendo l’aspetto moderno grosso modo barocco, del tutto distinta dalla precedente, che conosciamo e che il terremoto del 6 aprile 2009 è venuto a sconvolgere.
Ciò non significa che agli attori «forestieri» fosse stato consentito pervertire l’identità culturale che la città si era andata forgiando nei secoli.

Il nuovo volto stilistico dell’Aquila e dei centri del territorio fu voluto tale dai committenti aquilani, che ricorsero a quegli artisti e concordarono con essi nei particolari proposte progettuali, preventivi ed esecuzione delle opere.
Il barocco aveva fatto il suo ingresso nell’Aquilano già dal primo Seicento e nei successivi anni Sessanta e Settanta del secolo, grazie soprattutto alla febbrile creatività di Francesco Bedeschini e degli stuccatori lombardi e ticinesi, aveva riconfigurato e trasfigurato gli interni delle chiese principali.

Senza parlare dell’ordine architettonico classico e dell’impianto gesuitico adottati dagli architetti romani settecenteschi nel riconfigurare gli interni delle chiese crollate o danneggiate e nell’inventare le nuove: essi costituivano un dato acquisito nella tradizione architettonica aquilana, incoativamente da fine 1400 ed inizio 1500, e nel 1595 del Gesù del Valeriani, nonché nel 1636 per il San Filippo, o il 1646 per il Sant’Antonio de Nardis, in maniera compiuta.
Sempre la documentazione, poi, a dirci che quei pur famosi autori per l’ampia generalità dei casi nelle scelte formali ed operative furono determinati del tutto dai committenti locali.

Questi ultimi a volte furono intrattabili, come nel caso dei frati di San Bernardino, i quali, di fronte alla tipologia cupolare prismatica proposta dal Contini nel 1708 per coronare di nuovo l’immensa ottagonale sezione centrale della basilica, la rifiutarono, obbligandolo alla molto più polarizzante cupola a calotta estradossata, che dal 1400 aveva bellamente caratterizzato la chiesa e lo skyline cittadino.
In breve nella quarta ricostruzione dell’Aquila e dei centri del suo bacino territoriale il radicalmente nuovo consisté essenzialmente nell’aver esteso e generalizzato agli esterni degli edifici il carattere formale e stilistico che già da tempo informava la generalità degli interni, sia civili sia ecclesiali, e il gusto degli abitanti.

I documenti provano insomma che nell’immane sinergia di forze in azione, le «forestiere» ebbero il sopravvento.
Del resto l’entità della ricostruzione era tale, ed anche oggi lo è, che non sarebbe stato possibile alle sole forze culturali ed operative locali di portare avanti la grande impresa.
Nonostante i lunghi tempi della ricostruzione settecentesca, questa in fondo non attinse la propria compiutezza.

Ad esempio, e certamente per scarsezza od esaurimento di risorse finanziarie, per un lato si dové soprassedere a riprodurre l’articolata caratteristica sagoma abitativa ad innumeri campanili a cuspide e il fusto merlato della Torre Civica, che prima del terremoto doveva, con la grande cupola bernardiniana, bellamente caratterizzare lo skyline cittadino entro le mura.
Per un altro lato, se per l’architettura civile la ricostruzione giunse a realizzarsi per quanto concerne gli interni e per la definizione architettonica ed estetica degli esterni degli edifici, per la religiosa riguardò essenzialmente gli interni e le facciate, mentre fianchi ed absidi rimasero come in cantiere, nel loro dimesso, nudo tessuto murario a pietrame informe misto a laterizi.

Si trattò non di caratteristica di scuola, come qualcuno asserisce, bensì di una situazione di provvisorietà in attesa del consueto, coerente perfezionamento anche del disegno e rivestimento esterno.
Le strutture che si poterono terminare, le cupole di Sant’Agostino e del Suffragio, che si offrono delineate nelle loro forme architettoniche esteriori, definite da elaborati contrafforti e cornicioni, e rifinite in riquadrature ed intonaci rispetto alle volumetrie sottostanti in Sant’Agostino - con le incorniciature sottogronda pronte per la stuccatura - lo provano a sufficienza.

A tale fase costruttiva avrebbe dovuto seguire quella conclusiva di rifinitura plastica.
Quest’ultima non si verificò perchè, incappate le incompiute ricostruzioni settecentesche nella stasi edilizia ottocentesca successiva, la provvisorietà, come spesso succede, divenne definitiva, e così dové apparire agli occhi delle generazioni seguenti.