Bicchiere di stoffa A Torino espone Sabatini Odoardi
«Tra le pieghe», un bicchiere di stoffa le cui pieghe modellate disegnano il vuoto. Il bicchiere è il solito, da cantina, forma ossessivamente cara alla ricerca estetica di Gino Sabatini Odoardi (Pescara, 1968), presenza tra le più significative della giovane arte contemporanea oggi in Italia. «Tra le pieghe» (2004) è l’installazione che l’artista presenta oggi al Centro d’arte contemporanea Castello di Rivara (Torino).
L’occasione è la mostra inaugurale dell’inedito spazio arte ricavato nelle cantine della villa neobarocca. Il progetto espositivo si sviluppa intorno all’idea di abitare le cantine e le nicchie in pietra in cui veniva riposto il vino, chiamando l’opera d’arte a riempire di senso lo spazio come bene prezioso e collegamento simbolico con il luogo.
Il lavoro di Sabatini Odoardi vi trova collocazione insieme a quello di altri artisti selezionati dalla curatrice Francesca Solero. La collettiva resta aperta al pubblico fino al 16 novembre.
Artista poliedrico, ma con solidi riferimenti all’arte concettuale, Sabatini Odoardi ha al suo attivo un nutrito curriculum di mostre importanti (200 mostre negli ultimi 25 anni) e vari premi.
Perché il bicchiere?
«Il mio bicchiere è una bocca. Può contenere tutto e nulla. Un luogo a cui delegare inquietudini, denunce, speranze, ossessioni. Non so spiegare come certe forme possano sedurre fino alla nausea. Nel mio lavoro tendo a rappresentare simboli, dogmi. Spesso si tratta di riflessioni su una condizione, che magari mi genera malinconia, insofferenza, disagio. In quel volume di vetro, apparentemente svuotato, ho messo di volta in volta vino, gesso cristallizzato, cartine oceanografiche, inchiostro e altro ancora, per dire ciò che penso ma soprattutto ciò che non dico».
In una delle sue opere recenti affronta il tema della perdita dell’identità nel tempo, dopo la morte. Come se i segni che scompaiono dalle lapidi nel cimitero fossero sinonimo di oblio delle vite trascorse.
«E’ un lavoro che mi perseguita da almeno 15 anni, una riflessione sulla caducità del tempo e sull’identità bugiarda di tutto ciò che è postumo. Spesso mi capita di passeggiare per cimiteri e di imbattermi in lapidi senza nomi, portafoto senza foto e portafiori senza fiori. Rifletto su quelle pietre fredde e spoglie dimenticate dalla memoria, rifletto sul ricatto del tempo che sradica e scompone tutto. Lettere e numeri che un periodo testimoniavano identità vissute, dopo una manciata di decenni si di-staccano dando identità a nuovi defunti. Nuovi nomi (sdentati) incorniciati da nuovi vuoti. Nella mia installazione non ci sono simboli religiosi né cimiteriali e ora vado al cimitero più sollevato, consapevole che siamo destinati a una nuova identità».
Pessimismo esistenziale e tematiche sociali sembrano essere le cifre della sua esperienza artistica, come nell’installazione sui venditori ambulanti nel 2007.
«Mi fa rabbia l’ingiustizia sociale, l’intolleranza, la finta solidarietà travestita da buonismo mieloso e tanto altro. I veri nemici della società non sono tanto quelli che la sfruttano o la tiranneggiano, ma soprattutto quelli che la umiliano. Pasolini in una delle sue ultime interviste affermò che invecchiando stava diventando più allegro, perché aveva meno futuro e quindi meno speranze. Non credeva che a piccole verità parziali. Questa condizione di pseudo-allegria non era altro che la consapevolezza di una disfatta. Con l’installazione all’università di Valle Giulia desideravo ibernare una delle tante ingiuste verità parziali».
L’occasione è la mostra inaugurale dell’inedito spazio arte ricavato nelle cantine della villa neobarocca. Il progetto espositivo si sviluppa intorno all’idea di abitare le cantine e le nicchie in pietra in cui veniva riposto il vino, chiamando l’opera d’arte a riempire di senso lo spazio come bene prezioso e collegamento simbolico con il luogo.
Il lavoro di Sabatini Odoardi vi trova collocazione insieme a quello di altri artisti selezionati dalla curatrice Francesca Solero. La collettiva resta aperta al pubblico fino al 16 novembre.
Artista poliedrico, ma con solidi riferimenti all’arte concettuale, Sabatini Odoardi ha al suo attivo un nutrito curriculum di mostre importanti (200 mostre negli ultimi 25 anni) e vari premi.
Perché il bicchiere?
«Il mio bicchiere è una bocca. Può contenere tutto e nulla. Un luogo a cui delegare inquietudini, denunce, speranze, ossessioni. Non so spiegare come certe forme possano sedurre fino alla nausea. Nel mio lavoro tendo a rappresentare simboli, dogmi. Spesso si tratta di riflessioni su una condizione, che magari mi genera malinconia, insofferenza, disagio. In quel volume di vetro, apparentemente svuotato, ho messo di volta in volta vino, gesso cristallizzato, cartine oceanografiche, inchiostro e altro ancora, per dire ciò che penso ma soprattutto ciò che non dico».
In una delle sue opere recenti affronta il tema della perdita dell’identità nel tempo, dopo la morte. Come se i segni che scompaiono dalle lapidi nel cimitero fossero sinonimo di oblio delle vite trascorse.
«E’ un lavoro che mi perseguita da almeno 15 anni, una riflessione sulla caducità del tempo e sull’identità bugiarda di tutto ciò che è postumo. Spesso mi capita di passeggiare per cimiteri e di imbattermi in lapidi senza nomi, portafoto senza foto e portafiori senza fiori. Rifletto su quelle pietre fredde e spoglie dimenticate dalla memoria, rifletto sul ricatto del tempo che sradica e scompone tutto. Lettere e numeri che un periodo testimoniavano identità vissute, dopo una manciata di decenni si di-staccano dando identità a nuovi defunti. Nuovi nomi (sdentati) incorniciati da nuovi vuoti. Nella mia installazione non ci sono simboli religiosi né cimiteriali e ora vado al cimitero più sollevato, consapevole che siamo destinati a una nuova identità».
Pessimismo esistenziale e tematiche sociali sembrano essere le cifre della sua esperienza artistica, come nell’installazione sui venditori ambulanti nel 2007.
«Mi fa rabbia l’ingiustizia sociale, l’intolleranza, la finta solidarietà travestita da buonismo mieloso e tanto altro. I veri nemici della società non sono tanto quelli che la sfruttano o la tiranneggiano, ma soprattutto quelli che la umiliano. Pasolini in una delle sue ultime interviste affermò che invecchiando stava diventando più allegro, perché aveva meno futuro e quindi meno speranze. Non credeva che a piccole verità parziali. Questa condizione di pseudo-allegria non era altro che la consapevolezza di una disfatta. Con l’installazione all’università di Valle Giulia desideravo ibernare una delle tante ingiuste verità parziali».