Nessuna foto a quei 37 morti sotto le macerie per ricordarli per sempre come erano prima
Cronista a Onna subito dopo la malanotte
Erano le 9, incontro Giustino e Dina nel borgo devastato. Lui dice: «Fa’ il tuo lavoro»
ONNA. Vorrei tornare a un anno prima, quando Andrea e Benedetta si abbracciavano su un prato verde davanti casa. Vorrei ricordare Giustino, con Domenico e Maria Paola, come d’estate nella redazione di Pescara. Vorrei elaborare il lutto di quei 37 morti visti in volto, ad uno ad uno. Sembravano statue di Pompei. Erano Andrea e Benedetta, era un bimbo ancora vicino al nonno, anche lui morto.
Erano polvere ed odore acre. Erano lacrime. Quel giorno ad Onna ero morto anch’io. E’ stato un attimo del 6 aprile del 2009. E’ stato alle 9 del mattino quando arrivo in un paese dove non ero mai andato prima. Arrivo e chiedo: dove abita Giustino?
Giustino fino ad allora era solo un collega con il quale lavoro insieme dal 1986. Un collega da 24 anni. E potevo solo immaginare la sua vita fuori dalla redazione. Lui all’Aquila, io prima a Chieti eppoi a Pescara, erano certamente vite parallele che quel giorno si uniscono per sempre ad Onna, il paese dove non ero mai stato prima. Onna per me è l’immagine di quella mattina. E’ via dei Martiri, un tappeto infinito di macerie su cui corro mentre anche i secondi corrono. Mentre la terra continua a tremare e dai tubi che incontro sulla strada bombardata escono acqua e gas.
Un uomo in divisa mi urla: «Dove vai, fermati, è pericoloso, ti fai male». Ricordo di averlo visto negli occhi, erano sbarrati e rossi di sangue. L’ultimo tratto che mi separa da Giustino è un cumulo enorme di mattoni e malta. Lì su, a destra, c’è una porta affacciata sul vuoto e, subito sopra, un canestro, di quelli che anche mio figlio aveva in camera da piccolo. Era la stanza di Domenico, il figlio del mio collega. Dov’è Giustino? E Renzo mi risponde: «E’ più avanti, ma stai attento perché qui ti fai male». Renzo Parisse tira via le pietre come un leone, perché lì sotto ci sono il suo papà e il nipote, il figlio di Giustino. D’istinto torno indietro, corro ancora sulle macerie, ma sento di essere vicino.
Sento che la mia vita precedente sta per finire, mentre il terremoto dà un’altra frustata e la terra trema sotto i piedi. Poi tutto si ferma.
Giustino e Dina sono abbracciati nel giardino di casa. Giustino indossa un pigiama strappato ed ha i capelli pieni di polvere bianca impastata dal sudore. Dina gli si aggrappa, i loro occhi sono fissi verso la parte vecchia della loro bella casa, verso il canestro e la porta che pende nel vuoto. Il cellulare squilla, è il mio caporedattore, Roberto Marino, che si raccomanda: «Non piangere davanti a Giustino. Non piangere perché devi aiutarlo». Ma le lacrime escono da sole mentre abbraccio forte il mio collega e lui mi dice: «Ora che campo a fare. Non ho più nulla. Che campo a fare». Ma non è ancora la scossa più forte. Non lo è neppure mentre cado in ginocchio davanti a un uomo che in quel momento è un gigante. Cado in ginocchio travolto dal senso di colpa, dall’essere vivo come lo era lui prima. Io piango, lui no. Io sono a terra e non so più che fare. Lui mi dice: «Tu ora sei dall’altra parte. Fa’ il tuo lavoro». Eccola la scossa più forte, arriva con le note di un miserere che diventa musica travolgente, forza che genera forza. Da quel momento comincio a raccontare il terremoto vissuto da dentro, come ognuno di noi abruzzesi lo ha vissuto. Con Giustino provo a togliere un masso che schiaccia la sua auto. Con Giustino entro nella parte nuova della casa, dove è morta Maria Paola, per recuperare gli occhiali. Con Giustino riparto.
Lui ricostruisce la sua Onna, pagina dopo pagina sul Centro. Io racconto l’invisibile, cerco le cause della catastrofe. Ricordo il giorno che, in quel cercare ossessivo, trovo la piantina sgualcita della casa dello studente di via XX Settembre. La piantina su cui uno di quei nove ragazzi, che non ci sono più, aveva segnato tutte le crepe che c’erano prima della scossa orrenda.
Ricordo di aver provato la stessa sensazione di vittoria, quando scopro a Pettino i tre miseri ferri che non avrebbero mai retto pilastri di palazzi caduti in ginocchio come un soldato colpito da un plotone di esecuzione. Ricordo anche che mentre decine di giornalisti si affannavano dietro i personaggi politici che correvano all’Aquila, mentre Berlusconi rilasciava interviste e mentre telecamere e fotografi facevano la ressa, io prendevo la strada opposta per cercare indizi. Perché nulla crolla per caso e perché così elaboravo il mio lutto e il lutto di chi mi leggeva. Ma vorrei tornare a un anno prima del 6 aprile 2009. Vorrei davvero incontrare Andrea e Benedetta per non rivederli più, ogni notte, abbracciati come statue di Pompei. Come li ho visti quella mattina quando, ad uno ad uno, i morti di Onna mi passavano davanti agli occhi. Ed io riponevo la macchinetta fotografica nella borsa per ricordarli, per sempre, com’erano prima.
Erano polvere ed odore acre. Erano lacrime. Quel giorno ad Onna ero morto anch’io. E’ stato un attimo del 6 aprile del 2009. E’ stato alle 9 del mattino quando arrivo in un paese dove non ero mai andato prima. Arrivo e chiedo: dove abita Giustino?
Giustino fino ad allora era solo un collega con il quale lavoro insieme dal 1986. Un collega da 24 anni. E potevo solo immaginare la sua vita fuori dalla redazione. Lui all’Aquila, io prima a Chieti eppoi a Pescara, erano certamente vite parallele che quel giorno si uniscono per sempre ad Onna, il paese dove non ero mai stato prima. Onna per me è l’immagine di quella mattina. E’ via dei Martiri, un tappeto infinito di macerie su cui corro mentre anche i secondi corrono. Mentre la terra continua a tremare e dai tubi che incontro sulla strada bombardata escono acqua e gas.
Un uomo in divisa mi urla: «Dove vai, fermati, è pericoloso, ti fai male». Ricordo di averlo visto negli occhi, erano sbarrati e rossi di sangue. L’ultimo tratto che mi separa da Giustino è un cumulo enorme di mattoni e malta. Lì su, a destra, c’è una porta affacciata sul vuoto e, subito sopra, un canestro, di quelli che anche mio figlio aveva in camera da piccolo. Era la stanza di Domenico, il figlio del mio collega. Dov’è Giustino? E Renzo mi risponde: «E’ più avanti, ma stai attento perché qui ti fai male». Renzo Parisse tira via le pietre come un leone, perché lì sotto ci sono il suo papà e il nipote, il figlio di Giustino. D’istinto torno indietro, corro ancora sulle macerie, ma sento di essere vicino.
Sento che la mia vita precedente sta per finire, mentre il terremoto dà un’altra frustata e la terra trema sotto i piedi. Poi tutto si ferma.
Giustino e Dina sono abbracciati nel giardino di casa. Giustino indossa un pigiama strappato ed ha i capelli pieni di polvere bianca impastata dal sudore. Dina gli si aggrappa, i loro occhi sono fissi verso la parte vecchia della loro bella casa, verso il canestro e la porta che pende nel vuoto. Il cellulare squilla, è il mio caporedattore, Roberto Marino, che si raccomanda: «Non piangere davanti a Giustino. Non piangere perché devi aiutarlo». Ma le lacrime escono da sole mentre abbraccio forte il mio collega e lui mi dice: «Ora che campo a fare. Non ho più nulla. Che campo a fare». Ma non è ancora la scossa più forte. Non lo è neppure mentre cado in ginocchio davanti a un uomo che in quel momento è un gigante. Cado in ginocchio travolto dal senso di colpa, dall’essere vivo come lo era lui prima. Io piango, lui no. Io sono a terra e non so più che fare. Lui mi dice: «Tu ora sei dall’altra parte. Fa’ il tuo lavoro». Eccola la scossa più forte, arriva con le note di un miserere che diventa musica travolgente, forza che genera forza. Da quel momento comincio a raccontare il terremoto vissuto da dentro, come ognuno di noi abruzzesi lo ha vissuto. Con Giustino provo a togliere un masso che schiaccia la sua auto. Con Giustino entro nella parte nuova della casa, dove è morta Maria Paola, per recuperare gli occhiali. Con Giustino riparto.
Lui ricostruisce la sua Onna, pagina dopo pagina sul Centro. Io racconto l’invisibile, cerco le cause della catastrofe. Ricordo il giorno che, in quel cercare ossessivo, trovo la piantina sgualcita della casa dello studente di via XX Settembre. La piantina su cui uno di quei nove ragazzi, che non ci sono più, aveva segnato tutte le crepe che c’erano prima della scossa orrenda.
Ricordo di aver provato la stessa sensazione di vittoria, quando scopro a Pettino i tre miseri ferri che non avrebbero mai retto pilastri di palazzi caduti in ginocchio come un soldato colpito da un plotone di esecuzione. Ricordo anche che mentre decine di giornalisti si affannavano dietro i personaggi politici che correvano all’Aquila, mentre Berlusconi rilasciava interviste e mentre telecamere e fotografi facevano la ressa, io prendevo la strada opposta per cercare indizi. Perché nulla crolla per caso e perché così elaboravo il mio lutto e il lutto di chi mi leggeva. Ma vorrei tornare a un anno prima del 6 aprile 2009. Vorrei davvero incontrare Andrea e Benedetta per non rivederli più, ogni notte, abbracciati come statue di Pompei. Come li ho visti quella mattina quando, ad uno ad uno, i morti di Onna mi passavano davanti agli occhi. Ed io riponevo la macchinetta fotografica nella borsa per ricordarli, per sempre, com’erano prima.
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