«Gli esperti non erano obbligati a parlare»

Così il collegio di Corte d’Appello demolisce la sentenza di primo grado: «Dal giudice Billi conclusioni incerte e fallaci, forzature e contraddizioni»

L’AQUILA. A essere esperti lo erano, i sei imputati della Grandi rischi assolti dalla Corte d’Appello dall’accusa di omicidio colposo plurimo e lesioni colpose «perché il fatto non sussiste». Sapienti, sì, ma non certo al livello delle tre scimmie sagge (non vedo-non sento-non parlo) custodi del santuario giapponese di Nikko. Anche perché sono esattamente il doppio. Non vedere il male. Non sentire il male. Non parlare del male.

SENZA PAROLE. «Non erano obbligati a parlare», scrivono i giudici di secondo grado in uno dei passaggi salienti delle 389 pagine di motivazioni dalle quali par di capire che non si sa proprio come i sei scienziati siano stati trascinati dentro al processo. Poi, in questa dolorosissima vicenda – umana e processuale – della riunione del 31 marzo 2009 della commissione condannata in primo grado e assolta in secondo (con l’eccezione, in questo caso, di Bernardo De Bernardinis) spicca la figura del giudice di primo grado Marco Billi. Che vede, sente, parla ma poi, come dicono altri giudici, solo casualmente tre, come sopra, trae conclusioni «incerte e fallaci», ma pure «inidonee a costituire la base dell’accusa di omicidio colposo plurimo». E ancora, sempre lo stesso giudice del tribunale, «disinvoltamente supera dati formali (in relazione ai quattro convocati della commissione, ndr) – cifra «ben inferiore al numero legale di dieci componenti» – affermandone l’irrilevanza a fronte dell’urgenza della convocazione e dell’effettività dell’attività svolta, ma la Corte ritiene di non condividere né il metodo, che forza senza ragioni il dato normativo e fattuale, né il merito di tali conclusioni». E più avanti: «Il tribunale assume che la riunione avesse finalità di protezione civile, ovvero di “previsione, prevenzione e analisi del rischio sismico al fine di individuare le misure di protezione a livello individuale e collettivo da calibrare sull’evoluzione della situazione in atto” (di cui non vi è traccia né nella convocazione né nella valutazione), dilatandole sino a comprendere il compito di informazione diretta dei cittadini sull’attività sismica in corso, con palese confusione del piano comunicativo esterno – valorizzato dal comunicato stampa del Dipartimento di protezione civile – con quello valutativo interno delimitato dalla lettera di convocazione». Insomma, almeno a leggere questa sentenza, se non erano «quattro amici al bar» poco ci manca. Erano un consesso di indiscusso profilo internazionale, autorità riconosciute in materia tuttavia riunite non come commissione Grandi rischi, ma piuttosto per riflessioni private su un fatto pubblico. Tanto che non erano obbligati a parlarne. E fecero bene, arrivano a dire i giudici di Corte d’Appello.

NESSUN OBBLIGO. Tra una «contraddittoria verifica» e un’«artificiosa distinzione», attribuzioni sempre riferite al lavoro del «primo giudice», si arriva poi al nocciolo della questione. Pertanto, gli scienziati, come si legge alla pagina 233 della motivazione, «non avevano alcun obbligo di comunicare ai cittadini aquilani le valutazioni tecnico-scientifiche effettuate durante la riunione e anzi dovevano astenersene in ossequio al disposto legislativo che riserva alle sole autorità politiche di Protezione civile le scelte comunicative opportune (trattandosi di materia caratterizzata da alta discrezionalità politico/amministrativa). Non risulta che essi abbiano comunicato alcunché alla popolazione, poiché il contenuto dell’unica comunicazione esterna – l’intervista televisiva fatta da Barberi subito dopo la riunione – è del tutto corretto dal punto di vista scientifico, è privo di connotazioni indebitamente rassicuranti e, comunque, non ha avuto alcuna incidenza sugli accadimenti del 6 aprile, non avendo alcun teste riferito della stessa. Non sussistendo, quindi, alcun profilo di colpa nella condotta contestata agli imputati Barberi, Boschi, Calvi, Eva, Selvaggi e Dolce né potendo ipotizzarsi alcun nesso causale tra la loro condotta e la decisione delle vittime di non abbandonare le abitazioni la notte del 6 aprile 2009, si impone l’assoluzione degli stessi dall’imputazione loro ascritta in cooperazione colposa con la formula “perché il fatto non sussiste”».

BORDATE AL PM. Nella loro dissertazione i giudici di Corte d’Appello censurano anche le scelte del pm Fabio Picuti, specialmente in relazione alla «legge di copertura di natura sociologica prospettata dall’accusa tramite il proprio consulente, professore Antonello Ciccozzi, e fatta propria dal primo giudice, che difetta di adeguata validazione scientifica». Quindi, l’affondo: «Detta legge di copertura trova origine dallo stesso vissuto del consulente, nato e residente in L’Aquila, con conseguente perdita del necessario requisito della terzietà da parte del medesimo».

©RIPRODUZIONE RISERVATA