«Gli imputati a pranzo con un capo della cosca»

Un testimone racconta di frequenti incontri in un locale sulla costa teramana La difesa: «Processo senza prove, Biasini perse i lavori per motivi economici»

L’AQUILA. Gli intrecci su presunte infiltrazioni della ’ndrangheta negli appalti post-sisma sempre più al centro del processo che vede come imputati il giovane imprenditore aquilano Stefano Biasini e due calabresi, Francesco Ielo e Antonino Vincenzo Valenti, accusati di essere vicini al clan Caridi-Zindato-Borghetto. Un quarto imputato è fuori dal processo per motivi di salute.

Ieri, comunque, il giudizio è ripreso con l’audizione di un investigatore il quale ha risposto a una domanda che il collegio aveva fatto in una precedente udienza. Si chiedeva di sapere quanti fossero gli operai della ditta di Biasini soprattutto dopo il sisma. L’inquirente ha risposto che in effetti la forza lavoro di Biasini era limitata a uno o due operai e la scarsa manovalanza gli ha provocato la perdita di due contratti d’appalto che furono revocati.

«Se ci fosse stata la malavita calabrese dietro l’imputato», ha commentato l’avvocato Amedeo Ciuffetelli, che assiste gli imputati insieme a Vincenzo Salvi e Attilio Cecchini, «quegli appalti non sarebbero andati perduti».

Eppure Biasini girava in Ferrari e forse c’è stata qualche tavolata di troppo con gente poco raccomandabile.

Lo ha dichiarato ieri un testimone d’accusa, un giovane promotore finanziario aquilano (estraneo ai fatti) che per caso fu avvicinato alcuni mesi prima dal sisma addirittura da Santo Caridi. Il testimone ha affermato che Caridi si era rivolto a lui per chiedere un piccolo prestito e per realizzare loghi, vetrofanie, locandine e altro materiale per pubblicizzare un’attività commerciale che voleva avviare ma che non iniziò mai.

Il fatto che è il testimone, visto che per affari iniziò a frequentare i sospettati senza immaginare chi fossero i loro amici, ha parlato di pranzi nello stesso ristorante di un centro sulla costa teramana nel quale si trovavano gli imputati ma anche Caridi e soggetti ritenuti poco raccomandabili dall’accusa. Il testimone ha ricordato che c’erano dei cenni di saluto, in mezzo alle diverse affollate tavolate, tra il gruppo di Biasini e quello di persone ritenute vicine alla malavita organizzata, tutte dallo spiccato accento calabrese tra i quali un fiancheggiatore di Caridi.

Il professionista ha anticipato la probabile domanda del collegio, presieduto da Ciro Riviezzo, su come potesse essere certo circa l’accento calabrese di quelle persone.

«Ho lavorato come carabiniere nella zona di Gioia Tauro per quattro anni», ha spiegato il testimone, elogiato dal pm Picuti per la sua precisione e buona memoria, «e ho imparato bene quelle inflessioni dialettali, difficile che mi sia sbagliato».

Secondo le tesi accusatorie quelle presenze nello stesso locale tra quelle persone rafforzano la tesi di contiguità degli imputati ai clan malavitosi. Il tutto, è stato sostenuto, nel tentativo di agevolare l’espansione dell’influenza dei malavitosi nell’Aquilano.

Il processo riprenderà il 25 settembre con l’audizione di altri testi d’accusa.

(g.g.)

©RIPRODUZIONE RISERVATA