«Il centro non deve diventare un museo»

La docente e poetessa Anna Ventura interviene sul futuro della «città territorio».

L’AQUILA. L’Aquila non deve diventare una città museo ma deve tornare a essere un posto vitale in cui i cittadini siano gli attori principali. Sul futuro del capoluogo di Regione interviene Anna Ventura, docente oggi pensione, poetessa, critico letterario, autrice di decine di pubblicazioni da cui sempre traspare l’amore per i luoghi della sua città. Ecco cosa scrive la Ventura al Centro: «Si parla molto, a proposito dell’Aquila, di città territorio. E’ innegabile che il sisma, costringendo un’intera popolazione ad abbandonare le case, ha dato vita, di conseguenza, a una serie di realtà abitative diverse. Il fatto che queste nuove costruzioni siano antisismiche contribuisce, tra l’altro, a dare a chi le abita la serenità che viene dal sapere di avere un tetto sulla testa, e che il tetto non crollerà. La popolazione aquilana, per natura conservatrice e piuttosto scettica davanti al nuovo, si trova, oggi, a vivere una vita diversa: altre stanze, altre strade, altri negozi, altri vicini di casa. Una ventata di novità, maturata dalla realtà stessa delle cose, ha investito giovani e vecchi, ha costretto tutti ad accettare la più forte delle leggi di natura: la legge della metamorfosi.

Per anni ho avuto la fortuna di abitare nel centro storico della città, in una casa alta dalla quale vedevo il Gran Sasso, Roio, le colline di San Giuliano. Vedevo anche i campanili del Duomo e i tetti di tante case. Amavo questa casa per molte ragioni, non ultima quella che era la Casa a pochi passi dalla Piazza del Mercato. Lì c’era la vita: le chiese, i negozi belli, i bar, le banche, le edicole, il caffè di Ninetto Nunzia, e, soprattutto, c’erano le bancarelle degli ambulanti, e la gente che passeggiava nella striscia assolata, anche nei giorni di gelo. Qui era l’Acropoli, il luogo sacro agli uomini e agli dei. Qui confluivano tutti, e non solo i fortunati che abitavano nelle vicinanze, ma anche chi proveniva dalla periferia o dal contado: perché la città-territorio esisteva già; già esistevano altri luoghi di aggregazione lontani dal centro; ma la piazza era di tutti.

D’estate, quando, di sera, i tavoli all’aperto erano tanti da coprire anche gli ultimi spazi, per cui sembrava di essere seduti, tutti insieme, in unico grande caffè, ebbene, chi sedeva intorno a quei tavoli proveniva, per lo più, dalla periferia, dai paesi sparsi tutt’intorno all’immensa provincia aquilana. Per loro, e non solo per gli eletti, l’Acropoli non deve morire; non accettiamo passivamente l’idea di un enorme spazio acefalo, un vago “territorio” per sopravvivere. Non permettiamo che il centro cittadino diventi un museo all’aperto, ma vogliamo che torni ad essere un organismo vivente, oggi addormentato, ma pronto a risvegliarsi, se ne alimenteremo il soffio vitale che ancora resta». La Ventura in qualche modo auspica (e questo è il filo conduttore dei ragionamenti anche di altri intellettuali cittadini da Alessandro Clementi a Walter Cavalieri) ad abbandonare il concetto di aquilanità e ad aprirsi all’esterno senza preconcetti.