Il dolore della piazza «Volevamo solo giustizia»

Coi familiari delle vittime anche studenti, comitati e qualche esponente politico L’appello all’unità «per restituire dignità e memoria a una comunità dilaniata»

L’AQUILA. «Vergogna, vergogna» è il grido che è risuonato lunedì scorso in Corte d’appello dove è stata emessa la sentenza di secondo grado che ha assolto 6 dei 7 componenti della commissione Grandi rischi che si riunì all’Aquila il 31 marzo 2009. Luminari tutti condannati in primo grado a sei anni per omicidio colposo plurimo e lesioni in relazione alla morte di 29 delle 309 vittime del sisma del 6 aprile 2009. Quello stesso grido ieri sera è risuonato davanti alla prefettura.

«Siamo studenti del liceo Cotugno», afferma William Giordano, uno dei rappresentanti d’istituto. «Abbiamo voluto essere qui perché ricordiamo benissimo quei giorni che hanno preceduto il terremoto che ha devastato la nostra città. Giorni in cui in tanti si affrettarono a tranquillizzare gli aquilani. Noi non vogliamo giustizia a tutti i costi, ma vogliamo riaffermare che nessuno in quei giorni ha fatto nulla per proteggerci». Le persone ieri sera si sono raccolte alla Villa comunale per il primo appuntamento dopo la sentenza che ha ribaltato il precedente verdetto. Altri ne verranno. «Stasera ne siamo abbastanza, qui, ma dobbiamo essere molti di più», dice Roberta, un’altra giovane che non ha voluto mancare al sit-in. «Dobbiamo riprenderci L’Aquila. Lo dico a chi oggi non è qui: uniamoci, ne abbiamo tutti bisogno». Uniti per raccontare la verità storica, non è solo la giustizia a poter restituire dignità e memoria a una comunità dilaniata dal dolore e dalla disgregazione, ma è anche ritrovare la forza e la voglia di testimoniare. «Ho seguito tutte le udienze del processo, quasi una scelta dovuta, come cittadina ritenevo di dover essere lì», dice Anna Colasacco. «E nel corso del processo d’appello mi è parso che fosse stato già tutto deciso. Però noi la verità la conosciamo. Il nostro compito è riunirci e ripartire dal dolore per raccontare a noi, ai nostri concittadini e a chi vive fuori di qui, quella verità».

Ci sono giovani, anziani, parenti delle vittime, comitati, rappresentanti delle istituzioni, complessivamente forse non tantissime persone ma insieme per chiedere «verità e giustizia, verità e tutela».

La verità è il dolore dei familiari delle vittime, ma anche di tanti cittadini e di coloro che hanno ascoltato la sentenza d’appello con compostezza, ma vivendola come uno schiaffo, un colpo allo stomaco, quello di chi scopre che l’incubo che vive sembra cancellato dalla storia. E invece è storia vera e drammatica quella di chi ha rasserenato i propri familiari dopo le due scosse della sera del 5 aprile 2009, per aver dato credito agli esperti inviati dal capo della Protezione civile Guido Bertolaso.

«Sì, è vero che i terremoti non si possono prevedere, ma ci siamo fidati di esperti che dicevano di stare tranquilli. Chiamai mio figlio che viveva in centro per farlo venire da me», racconta Liduina, «e mi disse: mamma non c’è da temere, dopo queste scosse hanno detto gli esperti che possiamo stare tranquilli. Mio figlio non è morto ma è rimasto a lungo sotto le macerie». Solo davanti alla prefettura alcuni trovano il coraggio di parlare, e sono soprattutto donne. «L’ Italia non capisce di quanto ti sei fidata degli scienziati e hai affidato a loro la vita dei tuoi cari. L’Italia non capisce che io, e non gli esperti, tutti i giorni faccio i conti con la mia coscienza, perché per due volte ho rimesso a letto i miei figli». La manifestazione si chiude e davanti alla prefettura resta uno striscione con su scritto: «309 ragioni per continuare a lottare».

Barbara Bologna

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