Il viavai per la marijuana dietro il delitto D’Amico
L’imputato Paolucci collegato in video dal carcere, in aula gli amici dell’operaio ucciso Uno strano furto di droga lo aveva fatto infuriare, l’attività parallela era redditizia
L’AQUILA. È entrato nel vivo nell’aula C al secondo piano del palazzo di giustizia il processo a carico di Gianmarco Paolucci, il giovane (25 anni) di Bagno – che lavorava come macellaio in un supermercato – accusato di aver ucciso il 23 novembre 2019 Paolo D’Amico, 55enne dipendente Asm. L’omicidio si consumò nella casa di D’Amico (colpito più volte con uno scalpello e una “mazzetta”). L’edificio è in una zona isolata nei pressi di San Gregorio (anche se il Comune è Barisciano). Paolucci è stato arrestato un anno e 3 mesi dopo il fatto (a febbraio scorso) e ad accusarlo c’è la traccia del suo Dna trovato sui pantaloni (all’altezza delle caviglie) di Paolo D’Amico.
IL COLLEGIO
La Corte d’Assise è presieduta da Alessandra Ilari, affiancata da Niccolò Guasconi e da 6 giudici popolari. Il pm è Simonetta Ciccarelli. I legali di Paolucci sono Mauro Ceci e Antonio Milo, per la parte civile (madre e fratello della vittima) c’è l’avvocato Francesco Valentini.
LA PROVA DEL DNA
Diverse le novità emerse nell’ udienza di ieri con l’imputato collegato in videoconferenza dal carcere di Viterbo. La prima è che all’avvocato Ceci è stato affiancato dalla famiglia Paolucci (in aula era presente la madre del giovane) l’avvocato Milo ed è chiaro l’obiettivo della difesa: smontare la prova “regina” del Dna. Si tratta infatti di un processo indiziario che si fonda in gran parte su quella traccia trovata sui pantaloni della vittima, traccia che dimostra, se confermata, la presenza di Paolucci quantomeno nel luogo dove si è consumato il delitto e cioè la soglia del garage-laboratorio sotto all’abitazione dove D’Amico viveva. Paolucci avrebbe “lasciato” il suo Dna mentre – per l’accusa – tirava dentro il garage il corpo senza vita del dipendente Asm per nasconderlo e farne ritardare la scoperta.
LA DROGA
I testimoni ascoltati ieri (amici, operai, baristi, conoscenti) hanno più che altro contribuito a mettere a fuoco la figura di D’Amico. L’imputato non è stato mai tirato in ballo. Solo a due testi è stato chiesto se lo conoscevano, ma la risposta è stata negativa. È emerso che il dipendente Asm era una persona riservata e con pochi amici. La gran parte delle volte veniva “avvistato” nei bar, in particolare quello di San Gregorio e quello alla stazione di Paganica dove prendeva un caffè o al massimo un aperitivo. È però venuto fuori che, oltre al suo lavoro ufficiale all’Asm, D’Amico coltivava, nello spazio intorno alla sua abitazione, piante di marijuana (pare una ventina) che poi essiccava e confezionava (nel laboratorio garage aveva l’attrezzatura, compreso un bilancino) in dosi da 5 grammi e 10 grammi che vendeva a 50 o 100 euro a bustina. A volte la regalava pure, magari a chi gli aveva fatto un favore e in un caso anche a una signora che gli andava a fare le pulizie saltuariamente. Che D’Amico avesse da anni una “frequentazione” con la marijuana l’hanno confermato tutti i testimoni. Ai familiari, forse per giustificare la presenza dello stupefacente in casa, aveva detto che presto avrebbe chiesto l’autorizzazione per produrlo e venderlo a scopo terapeutico. Una ragazza ha riferito che una volta D’Amico le aveva offerto una bustina dicendole “provala e poi mi fai sapere”. Lei l’aveva rifiutata e buttata. D’Amico a suo modo era anche un uomo generoso. Un amico ha raccontato che dopo il sisma era stato ospite per settimane nel suo garage (costruito in muratura mentre la parte alta è in legno), che non aveva avuto danni. Quella della droga viene ritenuta la causa scatenante del delitto.
I DEBITI
Subito dopo l’omicidio fra i moventi si parlò anche di possibili debiti di D’Amico. Da ciò che è emerso ieri tale ipotesi sembra perdere consistenza. Il dipendente Asm non navigava certo nell’oro, ma fra lo stipendio e la vendita di marijuana metteva insieme i soldi necessari per vivere e anche per la sistemazione del piazzale. L’impresa edile che stava facendo i lavori aveva presentato un preventivo di circa 24.000 euro. Per pagare (se pure a scadenze periodiche) D’Amico aveva chiesto un prestito a una banca, prestito che pare onorasse senza problemi. Inoltre, a parte i soldi per le crocchette ai cani, l’auto, il cellulare e le consumazioni nei bar non sono emerse spese “folli” da giustificare problemi economici.
FURTO MISTERIOSO
In udienza si è parlato anche di un furto di marijuana che D’Amico avrebbe subìto mesi prima della sua morte. La cosa lo aveva fatto arrabbiare, tanto che avrebbe voluto comprare una pistola ad aria compressa e mettere telecamere di sorveglianza. Sull’autore di quel furto D’Amico aveva detto a un amico che si trattava di un ragazzo di Picenze e che “a quello adesso ci penso io”.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
IL COLLEGIO
La Corte d’Assise è presieduta da Alessandra Ilari, affiancata da Niccolò Guasconi e da 6 giudici popolari. Il pm è Simonetta Ciccarelli. I legali di Paolucci sono Mauro Ceci e Antonio Milo, per la parte civile (madre e fratello della vittima) c’è l’avvocato Francesco Valentini.
LA PROVA DEL DNA
Diverse le novità emerse nell’ udienza di ieri con l’imputato collegato in videoconferenza dal carcere di Viterbo. La prima è che all’avvocato Ceci è stato affiancato dalla famiglia Paolucci (in aula era presente la madre del giovane) l’avvocato Milo ed è chiaro l’obiettivo della difesa: smontare la prova “regina” del Dna. Si tratta infatti di un processo indiziario che si fonda in gran parte su quella traccia trovata sui pantaloni della vittima, traccia che dimostra, se confermata, la presenza di Paolucci quantomeno nel luogo dove si è consumato il delitto e cioè la soglia del garage-laboratorio sotto all’abitazione dove D’Amico viveva. Paolucci avrebbe “lasciato” il suo Dna mentre – per l’accusa – tirava dentro il garage il corpo senza vita del dipendente Asm per nasconderlo e farne ritardare la scoperta.
LA DROGA
I testimoni ascoltati ieri (amici, operai, baristi, conoscenti) hanno più che altro contribuito a mettere a fuoco la figura di D’Amico. L’imputato non è stato mai tirato in ballo. Solo a due testi è stato chiesto se lo conoscevano, ma la risposta è stata negativa. È emerso che il dipendente Asm era una persona riservata e con pochi amici. La gran parte delle volte veniva “avvistato” nei bar, in particolare quello di San Gregorio e quello alla stazione di Paganica dove prendeva un caffè o al massimo un aperitivo. È però venuto fuori che, oltre al suo lavoro ufficiale all’Asm, D’Amico coltivava, nello spazio intorno alla sua abitazione, piante di marijuana (pare una ventina) che poi essiccava e confezionava (nel laboratorio garage aveva l’attrezzatura, compreso un bilancino) in dosi da 5 grammi e 10 grammi che vendeva a 50 o 100 euro a bustina. A volte la regalava pure, magari a chi gli aveva fatto un favore e in un caso anche a una signora che gli andava a fare le pulizie saltuariamente. Che D’Amico avesse da anni una “frequentazione” con la marijuana l’hanno confermato tutti i testimoni. Ai familiari, forse per giustificare la presenza dello stupefacente in casa, aveva detto che presto avrebbe chiesto l’autorizzazione per produrlo e venderlo a scopo terapeutico. Una ragazza ha riferito che una volta D’Amico le aveva offerto una bustina dicendole “provala e poi mi fai sapere”. Lei l’aveva rifiutata e buttata. D’Amico a suo modo era anche un uomo generoso. Un amico ha raccontato che dopo il sisma era stato ospite per settimane nel suo garage (costruito in muratura mentre la parte alta è in legno), che non aveva avuto danni. Quella della droga viene ritenuta la causa scatenante del delitto.
I DEBITI
Subito dopo l’omicidio fra i moventi si parlò anche di possibili debiti di D’Amico. Da ciò che è emerso ieri tale ipotesi sembra perdere consistenza. Il dipendente Asm non navigava certo nell’oro, ma fra lo stipendio e la vendita di marijuana metteva insieme i soldi necessari per vivere e anche per la sistemazione del piazzale. L’impresa edile che stava facendo i lavori aveva presentato un preventivo di circa 24.000 euro. Per pagare (se pure a scadenze periodiche) D’Amico aveva chiesto un prestito a una banca, prestito che pare onorasse senza problemi. Inoltre, a parte i soldi per le crocchette ai cani, l’auto, il cellulare e le consumazioni nei bar non sono emerse spese “folli” da giustificare problemi economici.
FURTO MISTERIOSO
In udienza si è parlato anche di un furto di marijuana che D’Amico avrebbe subìto mesi prima della sua morte. La cosa lo aveva fatto arrabbiare, tanto che avrebbe voluto comprare una pistola ad aria compressa e mettere telecamere di sorveglianza. Sull’autore di quel furto D’Amico aveva detto a un amico che si trattava di un ragazzo di Picenze e che “a quello adesso ci penso io”.
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