«Io, cassintegrato in fila alla Caritas»
Ex Finmek, le storie degli operai da mesi senza sussidio: non viviamo più
L'AQUILA. Storie di ordinaria povertà. Di una vita trascorsa in fabbrica, con la schiena piegata sui rulli, tra il rumore assordante delle bobine. Trent'anni di sacrifici non sono bastati per ottenere uno stipendio certo a fine mese. Per sfamare una famiglia monoreddito, dove da giugno i soldi non arrivano più. Colpa della burocrazia, degli accordi tra aziende che comprano e vendono per fare profitto.
E proprio quei dipendenti, che hanno costruito pietra su pietra il passato glorioso dell'ex polo elettronico, sono oggi sul lastrico. In 200 chiedono a gran voce un sostegno economico: nulla di più di quel misero sussidio, 740 euro al mese, per tirare avanti. Per dare ai figli, ormai adolescenti, biscotti al posto del pane la mattina. O per comprare un paio di scarpe nuove.
E quando tirare le somme e risparmiare non basta più, dalle rinunce si arriva a bussare, con sguardo mesto e rassegnato, al portone della Caritas. Qui c'è un pasto caldo per tutti: per le famiglie disagiate, per gli sbandati. Anche per gli operai ex Finmek, che da quattro mesi non prendono lo stipendio.
Sono loro a raccontarci episodi crudi, quasi anacronistici, nella società della globalizzazione e del potere a tutti i costi. All'etichetta di terremotati si somma la condizione, spesso inaccettabile, di operai che hanno perso per sempre il lavoro. Troppo anziani, anagraficamente, per trovare nuova occupazione, troppo giovani per accedere alla pensione. Restano lì, nel limbo amaro della desolazione. Soli e abbandonati.
«Sono disperato», racconta Pasquale, moglie e due figli a carico, «da quattro mesi non percepisco il sussidio della cassa integrazione. Senza soldi non è possibile andare avanti. Mi sono rivolto alle banche per avere credito: ho bollette da pagare per 1.700 euro, ma i soldi chi me li da? Come me», prosegue, «tanti ex lavoratori della Finmek, che hanno trascorso più di 30 anni in fabbrica».
Pasquale abbozza un sorriso. Ricorda i tempi d'oro, quando sullo stabilimento di Pile campeggiavano le scritte Italtel e Siemens. Gli anni del boom industriale. «Tempi in cui si campava bene», dice, «e gli operai del polo elettronico costruivano case, facevano acquisti, arricchivano i commercianti della città». Un benessere diffuso che con il tempo si è affievolito, fiaccato dai continui cambi di cartello dell'azienda.
Da 5mila i dipendenti sono passati a poco più di 2mila, negli anni Ottanta. Dai primi anni Novanta l'emorragia occupazionale non si è più arrestata. Oggi sono rimasti in 200, appesi al filo della sorte della Finmek, società dapprima commissariata e ora in attesa di liquidazione. Ma dietro la burocrazia e i carteggi, dietro le vertenze sindacali e le lotte di piazza ci sono loro. Operai con un volto e una storia, spesso difficile, da raccontare.
«Chiediamo al Governo e alle istituzioni maggiore attenzione per un dramma che sta minando la nostra salute e la serenità familiare», dice ancora Pasquale. «Quando in casa non ci sono soldi tutto è più difficile. Anche comprare dei biscotti per la colazione diventa un problema, con i figli adolescenti che chiedono solo la normalità che hanno tutti i coetanei».
Pasquale, quando capita, lavora a giornata. Taglia l'erba o si arrangia come muratore. Ma non basta. E spesso si ritrova davanti alla sede della Caritas, dove si distribuiscono indumenti e pacchi con generi di prima necessità. È qui che incontra altri lavoratori finiti, come lui, sul lastrico.
Giuseppe è un cinquantenne aquilano. Anche lui ex operaio Finmek. Anche lui con una famiglia da sfamare: «Ricordo con nostalgia i tempi in cui il polo elettronico dava lavoro a migliaia di famiglie»?, afferma, «all'interno della fabbrica si costruivano le prime centrali di trasmissione per apparecchi telefonici. La tecnologia aveva il suo cuore pulsante all'Aquila, dentro uno stabilimento che ha segnato la storia della città e il suo sviluppo. Abbiamo partecipato a questa storia, ne siamo stati parte attiva. Ed oggi siamo qui», dice Giuseppe, «ad elemosinare qualche centinaia di euro per saldare le bollette o fare la spesa».
Senza soldi e senza futuro. In una realtà dove il sisma ha accentuato la grave crisi industriale ed economica. «Siamo finiti nel baratro», afferma con amarezza, «per noi non c'è futuro, nonostante i tanti proclami dei politici di destra e sinistra. Promesse elargite in grande quantità in campagna elettorale, che restano puntualmente inevase. Siamo appesi a un filo, in attesa delle decisioni di un tribunale o del Governo, che devono decretare la messa in liquidazione della Finmek e autorizzare la concessione di un nuovo periodo di cassa integrazione.
Ma mentre accade tutto questo, a casa si fanno i conti. E si tira la cinghia risparmiando anche su ciò che è assolutamente necessario. Una cena in pizzeria? Non ne faccio da anni. Eppure ho trascorso la mia vita in fabbrica, per dare un futuro ai figli e portare a fine mese uno stipendio sicuro». Certezze crollate sotto il peso della crisi industriale. «Non ho il coraggio di guardare negli occhi la mia famiglia», aggiunge, «è doloroso sentirsi falliti, dopo tanti sacrifici e una vita di lavoro». Giuseppe ha il sostegno di amici e parenti, in una gara di solidarietà senza eguali. «Ma l'autonomia è un'altra cosa», dice, «non si può vivere di elemosina. Vogliamo quanto ci spetta di diritto: il pagamento della cassa integrazione, che non riceviamo da mesi, e prospettive per il futuro».
Di battaglie di piazza le maestranze del polo elettronico ne hanno fatte molte: scioperi, blocchi stradali, marce su Roma. Operai dalle mani callose e le spalle grandi. Uomini dalla grande dignità.
E proprio quei dipendenti, che hanno costruito pietra su pietra il passato glorioso dell'ex polo elettronico, sono oggi sul lastrico. In 200 chiedono a gran voce un sostegno economico: nulla di più di quel misero sussidio, 740 euro al mese, per tirare avanti. Per dare ai figli, ormai adolescenti, biscotti al posto del pane la mattina. O per comprare un paio di scarpe nuove.
E quando tirare le somme e risparmiare non basta più, dalle rinunce si arriva a bussare, con sguardo mesto e rassegnato, al portone della Caritas. Qui c'è un pasto caldo per tutti: per le famiglie disagiate, per gli sbandati. Anche per gli operai ex Finmek, che da quattro mesi non prendono lo stipendio.
Sono loro a raccontarci episodi crudi, quasi anacronistici, nella società della globalizzazione e del potere a tutti i costi. All'etichetta di terremotati si somma la condizione, spesso inaccettabile, di operai che hanno perso per sempre il lavoro. Troppo anziani, anagraficamente, per trovare nuova occupazione, troppo giovani per accedere alla pensione. Restano lì, nel limbo amaro della desolazione. Soli e abbandonati.
«Sono disperato», racconta Pasquale, moglie e due figli a carico, «da quattro mesi non percepisco il sussidio della cassa integrazione. Senza soldi non è possibile andare avanti. Mi sono rivolto alle banche per avere credito: ho bollette da pagare per 1.700 euro, ma i soldi chi me li da? Come me», prosegue, «tanti ex lavoratori della Finmek, che hanno trascorso più di 30 anni in fabbrica».
Pasquale abbozza un sorriso. Ricorda i tempi d'oro, quando sullo stabilimento di Pile campeggiavano le scritte Italtel e Siemens. Gli anni del boom industriale. «Tempi in cui si campava bene», dice, «e gli operai del polo elettronico costruivano case, facevano acquisti, arricchivano i commercianti della città». Un benessere diffuso che con il tempo si è affievolito, fiaccato dai continui cambi di cartello dell'azienda.
Da 5mila i dipendenti sono passati a poco più di 2mila, negli anni Ottanta. Dai primi anni Novanta l'emorragia occupazionale non si è più arrestata. Oggi sono rimasti in 200, appesi al filo della sorte della Finmek, società dapprima commissariata e ora in attesa di liquidazione. Ma dietro la burocrazia e i carteggi, dietro le vertenze sindacali e le lotte di piazza ci sono loro. Operai con un volto e una storia, spesso difficile, da raccontare.
«Chiediamo al Governo e alle istituzioni maggiore attenzione per un dramma che sta minando la nostra salute e la serenità familiare», dice ancora Pasquale. «Quando in casa non ci sono soldi tutto è più difficile. Anche comprare dei biscotti per la colazione diventa un problema, con i figli adolescenti che chiedono solo la normalità che hanno tutti i coetanei».
Pasquale, quando capita, lavora a giornata. Taglia l'erba o si arrangia come muratore. Ma non basta. E spesso si ritrova davanti alla sede della Caritas, dove si distribuiscono indumenti e pacchi con generi di prima necessità. È qui che incontra altri lavoratori finiti, come lui, sul lastrico.
Giuseppe è un cinquantenne aquilano. Anche lui ex operaio Finmek. Anche lui con una famiglia da sfamare: «Ricordo con nostalgia i tempi in cui il polo elettronico dava lavoro a migliaia di famiglie»?, afferma, «all'interno della fabbrica si costruivano le prime centrali di trasmissione per apparecchi telefonici. La tecnologia aveva il suo cuore pulsante all'Aquila, dentro uno stabilimento che ha segnato la storia della città e il suo sviluppo. Abbiamo partecipato a questa storia, ne siamo stati parte attiva. Ed oggi siamo qui», dice Giuseppe, «ad elemosinare qualche centinaia di euro per saldare le bollette o fare la spesa».
Senza soldi e senza futuro. In una realtà dove il sisma ha accentuato la grave crisi industriale ed economica. «Siamo finiti nel baratro», afferma con amarezza, «per noi non c'è futuro, nonostante i tanti proclami dei politici di destra e sinistra. Promesse elargite in grande quantità in campagna elettorale, che restano puntualmente inevase. Siamo appesi a un filo, in attesa delle decisioni di un tribunale o del Governo, che devono decretare la messa in liquidazione della Finmek e autorizzare la concessione di un nuovo periodo di cassa integrazione.
Ma mentre accade tutto questo, a casa si fanno i conti. E si tira la cinghia risparmiando anche su ciò che è assolutamente necessario. Una cena in pizzeria? Non ne faccio da anni. Eppure ho trascorso la mia vita in fabbrica, per dare un futuro ai figli e portare a fine mese uno stipendio sicuro». Certezze crollate sotto il peso della crisi industriale. «Non ho il coraggio di guardare negli occhi la mia famiglia», aggiunge, «è doloroso sentirsi falliti, dopo tanti sacrifici e una vita di lavoro». Giuseppe ha il sostegno di amici e parenti, in una gara di solidarietà senza eguali. «Ma l'autonomia è un'altra cosa», dice, «non si può vivere di elemosina. Vogliamo quanto ci spetta di diritto: il pagamento della cassa integrazione, che non riceviamo da mesi, e prospettive per il futuro».
Di battaglie di piazza le maestranze del polo elettronico ne hanno fatte molte: scioperi, blocchi stradali, marce su Roma. Operai dalle mani callose e le spalle grandi. Uomini dalla grande dignità.
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