Le cartelle esattoriali delle vittime I genitori: «Ora chiedeteci scusa» 

Sergio Bianchi (Avus) ripercorre la vicenda giudiziaria dopo la perdita del figlio Nicola nel sisma «Essere condannati a pagare le spese processuali significa che per lo Stato non contiamo niente»

I quattordicimila euro sono sentenza, la macchina burocratica procede, e adesso arrivano anche le cartelle esattoriali. Ma per le famiglie – ovviamente – è una sofferenza che rinnova il dolore. «Vede questo? Era il suo preferito. Lo abbiamo ritrovato sotto le macerie dopo due giorni di ricerche». Sul letto a quadretti bianchi e rossi che fu di Nicola Bianchi c’è un libro: “Il Piccolo Principe”. Probabilmente era vicino anche al letto in cui dormiva quando gli è crollata addosso la palazzina di via D’Annunzio 24, alle 3.32 del 6 aprile 2009 all’Aquila. Il letto che lo ha visto morire. In quell’edificio venuto giù durante il terremoto sono morte 13 persone, di cui 7 studenti fuorisede come Nicola. Sergio Bianchi è il padre, rappresentante dell’Avus, l’Associazione vittime universitarie del sisma. Gira tra le mani il libricino ed è l’unico momento in cui sorride: «Tutti gli altri volumi erano rovinati, pieni di calcinacci. Questo era pulito. Lo portava sempre con sé nello zaino. Quando non sapeva cosa leggere, sfogliava questo».
Il 5 giugno scorso la Corte d’Appello dell’Aquila ha confermato la sentenza di primo grado del 2022 in cui si rifiutava il risarcimento civile ai parenti di quegli universitari fuorisede. Nicola Bianchi, Ivana Lannutti, Enza Terzini, Michele Strazzella, Daniela Bortoletti, Sara Persichitti e Tonino Colonna. La Corte condanna gli appellanti a pagare 13.768 euro più il 15% di rimborso forfettario allo Stato. Tredicimila settecentosessantotto euro per aver chiesto alla presidenza del Consiglio dei ministri, in quanto responsabile della Protezione civile, di essere risarciti. «Nel momento in cui mi dai una sentenza del genere e mi condanni anche a pagare le spese processuali», dice con rassegnazione, «significa che non contiamo niente per lo Stato».
Nella cameretta di Nicola, che affaccia sulla campagna verde di Monte San Giovanni Campano, in provincia di Frosinone, Sergio viene per ascoltare la musica che fu del figlio e per studiare. Sul tavolo, tra i cd, la foto del 22enne che abbraccia la sorella Alessandra e lo zaino nero che usava per andare all’università, ci sono le sentenze che Sergio viene qui a leggere e rileggere. Per capire.
Lei come ha saputo di questa sentenza?
«Attraverso una raccomandata. Mi è arrivata la notifica dell’Agenzia delle Entrate per pagare l’imposta per la registrazione dell’atto giudiziario. Ancora non la apro, dovrebbero essere 200 euro circa. In realtà, gli avvocati lo sapevano, ma non hanno avuto il coraggio di chiamarmi, erano alla ricerca delle parole giuste».
Secondo i giudici non esiste “il nesso causale” tra le dichiarazioni rassicuranti della Protezione civile a margine della riunione della Commissione Grandi Rischi del 31 marzo 2009 e il comportamento dei ragazzi che li ha portati alla morte. Quel giorno Bernardo De Bernardinis, vice capo della Protezione civile (condannato in via definitiva a due anni), in merito alle continue scosse, parlò alle telecamere di uno «scarico di energia continuo» che avrebbe prevenuto eventi di magnitudo più intensa. «Non c’è pericolo», spiegava. E scherzando con i cronisti diceva: «Possiamo farci un bel bicchiere di vino, di Montepulciano doc». Una comunicazione “ingannevolmente” tranquillizzante”, si legge nella sentenza, ma “senza una strategia rassicurante verso l’opinione pubblica”.
Signor Bianchi, qual è stata la colpa di Nicola?
«Essere responsabile negli studi e aver creduto alle informazioni date dalle istituzioni. Frequentava la facoltà di Biotecnologie, aveva un esame l’8 aprile. Poteva rimandare, ma lui voleva sostenerlo. Le scosse c’erano da mesi, l’Università però era aperta. Negli ultimi giorni mi disse che all’Aquila erano arrivati gli scienziati della Commissione Grandi Rischi da Roma a dire di stare tranquilli». Nella sentenza si citano le scosse precedenti a quella fatale delle 3.32. «Secondo i giudici», prosegue Bianchi, «quando Nicola e gli altri ragazzi sono scesi per strada intorno alle 23, lo hanno fatto perché hanno ravvisato un pericolo, dunque non dovevano rientrare». Questa è la loro colpa, quella che giornalisticamente è diventata condotta incauta. Nella sentenza di primo grado si legge che “la scelta del Bianchi di rimanere ad alloggiarvi (nell’appartamento, ndr) deve qualificarsi in ogni caso come colposa”.
Secondo l’avvocato che difende i parenti delle vittime, Alessandro Gamberini, «il problema non è perché i ragazzi siano usciti di casa, ad ogni scossa da mesi si scendeva per strada. Il problema è perché abbiano deciso di tornare nell’appartamento: sono rientrati perché erano stati tranquillizzati dalla comunicazione della Protezione civile che aveva escluso pericoli di crollo degli edifici».
In quella casa di quattro piani si salvarono due studenti, amici di Nicola. Dopo un anno e mezzo dai fatti sono andati a testimoniare su quella notte e sulle informazioni che li indussero a stare tranquilli. «Il pm arrivò alla conclusione che i loro ricordi non erano vivi», spiega Sergio Bianchi. «Anche la mia deposizione non è stata ammessa perché non ero all’Aquila. Quel giorno ho capito che avremmo perso».
Sergio riprende il libro tra le mani: «Mi ha detto mille volte: papà leggi questo libro. Io non l’ho mai letto perché non avevo tempo, lavoravo per permettere a lui di studiare», dice accarezzandolo.
«Ci rifiutano il risarcimento, ma soprattutto ci rifiutano la giustizia. Li hanno uccisi due volte. Non do tanta importanza ai soldi. In cuor mio volevo solo che ammettessero di aver sbagliato perché sono stati fatti tanti errori in quel periodo all’Aquila. Abbiamo sbagliato, scusateci», ripete quasi parlando a sé stesso. «Il risarcimento per me era un’ammissione di colpevolezza. Tutto questo perché, secondo i giudici, non c’è prova della fonte informativa precisa dalla quale i ragazzi si siano sentiti rassicurati».
Chi doveva chiedere scusa a lei e agli altri parenti delle vittime?
«Le istituzioni. Anche dopo il clamore di quest’ultima sentenza non si è fatto vivo nessuno. Non capiscono. Dopo la perdita inizia una sofferenza diversa. Una sofferenza lenta che ti distrugge poco a poco. Tu cerchi di contrastarla tutti i giorni. Senza un programma, perché ogni giorno cambia forma. Le mie notti da 15 anni sono insonni: ti svegli e immagini di essere in macchina. Quella che avevo nel 2009. L’auto entra nella nebbia e scompare. Sono io che vado a riprendere Nicola all’Aquila, di notte, prima della scossa».
Qual è il suo sentimento oggi verso le istituzioni?
«Sono sfiduciato. Ma noi siamo qui, quando vogliono possono chiederci scusa». Gli avvocati preparano il ricorso in Cassazione.
Ha letto poi il Piccolo Principe?
«Ci ho provato, non ci sono riuscito. Non ho mai neanche pianto. Lo farò, forse, quando finirà quest’azione legale e avrò giustizia. Piangerò e leggerò il libro. Forse in quel momento sarò felice».
*giornalista La7
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