Quanto era bella la mia Onna
Giustino Parisse, i figli e il paese distrutto: tutto è finito quella notte
Quanto era bella Onna quella notte, prima dello scossone orrendo. La luna rischiarava i vicoli: via dei Calzolai, via Oppieti, via dei Martiri, via Ludovici, via della Ruetta, via delle Siepi. Dentro, mille anni di storia e milioni di storie: uomini e donne che quel piccolo paese in fondo alla Valle dell’Aterno avevano costruito e amato. In quella orrenda notte abbiamo perso tutto: le vite umane, le case, il nostro paese.
Non sentirò più gli odori: da bambino a ogni passo c’era una stalla. Sotto gli animali, sopra gli uomini. Nei giorni di festa i profumi del pomodoro fresco per fare il sugo rallegrava il palato ancor prima di consumare il pasto. E poi le voci, la colonna sonora di un paese di gente semplice. Quella notte dopo lo scossone orrendo le voci non c’erano più. La luna rischiarava il silenzio. Il dolore tanto forte da spezzare le corde vocali. Quella notte era una bella notte. Nella mia casa c’erano due angeli, erano nel loro lettino. Riposavano. Attendevo già il rumorio di un mattino normale. Quando si alzavano per contendersi il bagno. La mamma che li chiamava: sbrigatevi, è tardi, la scuola vi attende. L’ultima carezza, l’ultima rassicurazione.
L’orrendo scossone. La corsa verso quelle camerette, il grido spezzato: papà, papà. Domenico arrivo, arrivo. Resisti, resisti. Polvere, sassi, disperazione. Dall’altra parte della casa il grido della mamma: Maria Paola è qui. Lo sento. Un barlume: arrivo ad aiutarti. No, è solo speranza. L’orrendo scossone non perdona. Nella notte, sul tetto che non è più un tetto, l’abbraccio di un padre e una madre. Quella casa che diventa una tomba, la tomba dei sogni, la tomba dei tuoi figli per i quali hai lottato e poi quella notte scopri che li hai solo portati nel baratro. E’ la tua storia che finisce, è la tua casa che sparisce, il tuo paese che non c’è più. Poi le luci del giorno beffarde. C’è il sole, sullo sfondo brilla il Gran Sasso. Gli uccelli cantano la primavera. Tu sei lì, a guardare il vuoto. Arrivano gli amici, i soccorsi. E inizia il rosario della morte: Gabriella, Luana, Berardino, Susanna, Fabio e poi ancora, ancora e ancora: fino a 38. Era quella la mia gente, è quella la mia gente anche nella morte.
I miei bambini estratti dalle macerie. Nemmeno il coraggio di guardarli. La morte non deve avere un volto. La vita deve trionfare: il ricordo è del sorriso, degli occhi pieni di gioia, non del ghigno mortale di una faccia disfatta. Mamma che si salva: il volto insanguinato non lo riconosco. Papà è ancora seppellito sotto una montagna di macerie. Si lavora per portarlo via. Poi vado via anche io, fuggo dall’orrore. Fuggo dalla mia storia. Fuggo dalla mia vita. Tutto finisce nella notte dell’orrendo scossone. Non sento la radio, non guardo la tv. Poi, qualche sera dopo, incrocio con gli occhi l’immagine della chiesa parrocchiale: lì si sono sposati mia madre e mio padre, lì sono stato battezzato, lì ho pregato con la mia gente la statua della Madonna delle Grazie. Mi dicono che devono portarla via. Era nella sua nicchia dalla fine del 1400, quando la mano ispirata dell’artista Carlo dell’Aquila l’aveva modellata. Siam peccatori ma figli tuoi, Maria di Grazie prega per noi: il canto è risuonato milioni di volte, almeno venti generazioni di onnesi hanno toccato quella statua, l’hanno baciata e hanno sfiorato quel bambino Gesù che stringe forte forte fra le manine un uccellino. La Madonna se ne va, depositata dentro un container. Terremotata anche lei. Tornerà, sì tornerà, quando le macerie risorgeranno.
Via dei Martiri non c’è più: nel 1944 la mano cattiva dell’uomo l’aveva resa simbolo della sofferenza, dell’uomo che si accanisce sull’uomo. Diciassette onnesi, la mia gente, annientati dalla follia di una guerra senza senso. Quella strage mi ha perseguitato per trenta anni: ho cercato di capire, di spiegare, di dare una ragione a quella violenza tanto assurda. Ho sperato anche di dare uno spunto per cercare giustizia. Oggi via dei Martiri piange altri morti: stavolta l’assurdo è il tremendo scossone. Tanti anni fa scavando nella storia del mio paese mi sono imbattuto nelle carte dell’archivio parrocchiale. Mi colpì una data: 2 febbraio 1703. Il parroco di quel giorno scrisse: ora sesta, orrendo scossone, la chiesa parrocchiale per intercessione di San Piero Apostolo è rimasta in piedi, una sola persona è morta.
Nel 1753 fu costruito il campanile, intorno una scritta a ricordo del parroco che lo aveva fatto realizzare: Beneditus Pezzopan, Unda prepositus. Due giorni fa i vigili del fuoco hanno preso la campana grande recuperata fra le macerie del campanile. L’hanno fatta suonare nella tendopoli. Sarà rinascita? Alla mia gente dico andate avanti, io non so se ce la farò, non so nemmeno come sono riuscito e scrivere questi pochi pensieri. Grazie alla mia seconda famiglia: gli amici e colleghi del Centro. Grazie a tutti quelli che mi hanno aiutato e confortato in questi giorni. Quanto era bella Onna quella notte prima dello scossone orrendo.
Non sentirò più gli odori: da bambino a ogni passo c’era una stalla. Sotto gli animali, sopra gli uomini. Nei giorni di festa i profumi del pomodoro fresco per fare il sugo rallegrava il palato ancor prima di consumare il pasto. E poi le voci, la colonna sonora di un paese di gente semplice. Quella notte dopo lo scossone orrendo le voci non c’erano più. La luna rischiarava il silenzio. Il dolore tanto forte da spezzare le corde vocali. Quella notte era una bella notte. Nella mia casa c’erano due angeli, erano nel loro lettino. Riposavano. Attendevo già il rumorio di un mattino normale. Quando si alzavano per contendersi il bagno. La mamma che li chiamava: sbrigatevi, è tardi, la scuola vi attende. L’ultima carezza, l’ultima rassicurazione.
L’orrendo scossone. La corsa verso quelle camerette, il grido spezzato: papà, papà. Domenico arrivo, arrivo. Resisti, resisti. Polvere, sassi, disperazione. Dall’altra parte della casa il grido della mamma: Maria Paola è qui. Lo sento. Un barlume: arrivo ad aiutarti. No, è solo speranza. L’orrendo scossone non perdona. Nella notte, sul tetto che non è più un tetto, l’abbraccio di un padre e una madre. Quella casa che diventa una tomba, la tomba dei sogni, la tomba dei tuoi figli per i quali hai lottato e poi quella notte scopri che li hai solo portati nel baratro. E’ la tua storia che finisce, è la tua casa che sparisce, il tuo paese che non c’è più. Poi le luci del giorno beffarde. C’è il sole, sullo sfondo brilla il Gran Sasso. Gli uccelli cantano la primavera. Tu sei lì, a guardare il vuoto. Arrivano gli amici, i soccorsi. E inizia il rosario della morte: Gabriella, Luana, Berardino, Susanna, Fabio e poi ancora, ancora e ancora: fino a 38. Era quella la mia gente, è quella la mia gente anche nella morte.
I miei bambini estratti dalle macerie. Nemmeno il coraggio di guardarli. La morte non deve avere un volto. La vita deve trionfare: il ricordo è del sorriso, degli occhi pieni di gioia, non del ghigno mortale di una faccia disfatta. Mamma che si salva: il volto insanguinato non lo riconosco. Papà è ancora seppellito sotto una montagna di macerie. Si lavora per portarlo via. Poi vado via anche io, fuggo dall’orrore. Fuggo dalla mia storia. Fuggo dalla mia vita. Tutto finisce nella notte dell’orrendo scossone. Non sento la radio, non guardo la tv. Poi, qualche sera dopo, incrocio con gli occhi l’immagine della chiesa parrocchiale: lì si sono sposati mia madre e mio padre, lì sono stato battezzato, lì ho pregato con la mia gente la statua della Madonna delle Grazie. Mi dicono che devono portarla via. Era nella sua nicchia dalla fine del 1400, quando la mano ispirata dell’artista Carlo dell’Aquila l’aveva modellata. Siam peccatori ma figli tuoi, Maria di Grazie prega per noi: il canto è risuonato milioni di volte, almeno venti generazioni di onnesi hanno toccato quella statua, l’hanno baciata e hanno sfiorato quel bambino Gesù che stringe forte forte fra le manine un uccellino. La Madonna se ne va, depositata dentro un container. Terremotata anche lei. Tornerà, sì tornerà, quando le macerie risorgeranno.
Via dei Martiri non c’è più: nel 1944 la mano cattiva dell’uomo l’aveva resa simbolo della sofferenza, dell’uomo che si accanisce sull’uomo. Diciassette onnesi, la mia gente, annientati dalla follia di una guerra senza senso. Quella strage mi ha perseguitato per trenta anni: ho cercato di capire, di spiegare, di dare una ragione a quella violenza tanto assurda. Ho sperato anche di dare uno spunto per cercare giustizia. Oggi via dei Martiri piange altri morti: stavolta l’assurdo è il tremendo scossone. Tanti anni fa scavando nella storia del mio paese mi sono imbattuto nelle carte dell’archivio parrocchiale. Mi colpì una data: 2 febbraio 1703. Il parroco di quel giorno scrisse: ora sesta, orrendo scossone, la chiesa parrocchiale per intercessione di San Piero Apostolo è rimasta in piedi, una sola persona è morta.
Nel 1753 fu costruito il campanile, intorno una scritta a ricordo del parroco che lo aveva fatto realizzare: Beneditus Pezzopan, Unda prepositus. Due giorni fa i vigili del fuoco hanno preso la campana grande recuperata fra le macerie del campanile. L’hanno fatta suonare nella tendopoli. Sarà rinascita? Alla mia gente dico andate avanti, io non so se ce la farò, non so nemmeno come sono riuscito e scrivere questi pochi pensieri. Grazie alla mia seconda famiglia: gli amici e colleghi del Centro. Grazie a tutti quelli che mi hanno aiutato e confortato in questi giorni. Quanto era bella Onna quella notte prima dello scossone orrendo.