«Recuperare il disegno urbano»
L’architetto De Amicis: non c’è città della cultura senza centro storico.
L’Aquila, città della cultura, dell’università, dei concerti, del teatro, della «Lanterna magica» ma non dell’urbanistica, dell’architettura del paesaggio. Come può candidarsi a «città della cultura» una città con un centro storico da ricostruire e asfissiato da una immensa periferia che lo circonda, priva di significazione paesaggistica, in cui perfino i pochi edifici che si differenziano nella congerie edilizia sono espressione di un’architettura autoreferenziale? Pur senza averne piena consapevolezza, il fascino della città storica si nasconde proprio nella singolare spazialità che si respira al suo interno, determinata da una successione di moduli, ciascuno strutturato da una piazza con una fontana, sulla quale si attesta l’edificio religioso con l’emergenza del campanile, uno o più palazzi, a cui si accede da un androne comunicante con un chiaroscurato cortile porticato.
A questa compagine organizzata in tessuto, fa eco la singolarità di alcune grandi nodalità e quali la piazza del mercato e quella del Comune, il complesso di San Bernardino, quello di Collemaggio, quello del Castello, le cui immagini si impongono a livello territoriale. Nelle età successive alla fondazione, il processo espansivo, di trasformazione e di rinnovo, segue ancora la via maestra del disegno urbano, che costituisce il parametro emergente dell’urbanistica storica, col quale vengono modellati i vari scenari urbani, veri palcoscenici sui quali viene messa in scena e narrata la vita dei singoli cittadini e della comunità.
E’ con l’urbanistica del dopoguerra, che la geometria perde il suo tradizionale ruolo di dispositivo al servizio dell’architettura del paesaggio, per farsi strumento asettico al servizio dello zooning e degli standards urbanistici. Abbandonati i criteri ispirati alla raffigurabilità, gli spazi urbani si svuotano di significato, diventando anonimi ghetti monofunzionali, oppure enclave ispirate ad una visione catacombale della città. I cittadini spesso fuggono dalla periferia, per portarsi in palcoscenici a loro più congeniali, nell’accoglienza che si respira all’interno delle mura storiche.
Ci chiediamo allora: una città della cultura può conservare questo stato di acriticità di fronte ad uno spettacolo del genere? O invece non si sente l’obbligo di ripensare i luoghi della città alla luce di una visione nuova e integrata, per farne un sistema unitario di produzione culturale, con spazi non adempienti unicamente alle asettiche prescrizioni degli standards, o volti alla costruzione di autoreferenziali oggetti architettonici, situati nel mare dell’indistinto, ma luoghi che attingano innanzi tutto la loro qualità dalla costruzione di scenari dello stesso segno di quelli che fino a ieri abbiamo condiviso, muovendoci nel centro storico.
Riusciamo ad immaginare una rappresentazione teatrale o un concerto tra gli spazi di risulta di un quartiere della periferia, allo stesso modo con cui riusciamo a farlo in una piazza del centro storico, o all’interno del cortile di un palazzo? L’Aquila è una città dalla doppia personalità, dal volto asimmetrico. E’ nel dare vita ad un’architettura del paesaggio all’interno della sua compagine urbana, che l’Aquila si fa concreta città della cultura. Cosa si può fare per uscire da questa condizione per cui, in concomitanza e ancor prima che possa recuperare il suo centro storico, L’Aquila possa proiettarsi con lo spirito nuovo della città dell’industria culturale? Nella corrida che le è più congeniale?
E’ nella creazione di una struttura unificante, una sorta di gran bazar ambientale, capace di esibire scenari qualificati sotto il profilo dell’architettura del paesaggio, che può costruire il modello a cui ispirare il suo nuovo volto. Esiste uno stretto legame tra cultura, ambiente, architettura e turismo (è stato detto più volte), dalla cui combinazione si possono determinare soluzioni imprenditoriali inedite. E’ questo il nuovo paradigma a cui attingere perché il messaggio e gli stimoli lanciati dal centro storico, anziché apparire una nostalgica venerazione di una città legata al passato, possa rappresentarsi come il segreto strumento capace di produrre cultura, il segreto di un’aquila che vola.
La creazione di un Central Park, attestato lungo la fascia fluviale dell’Aterno, da Amiternum ad Aveja, consacrerebbe definitivamente la città a «cantiere aperto dell’industria della cultura». Un progetto articolato in tre ambiti (amiternino, fuori porta e vestino), che si propone anche come opportunità per ridisegnare l’asse maestro della città, con i suoi itinerari secondari, capace di riannodare i fili tra centro e periferia, compresa quella sorta in seguito all’emergenza sismica. Nel fare ciò la città porterebbe a compimento una metodologia progettuale che è stata di guida nella costruzione del suo centro storico.
A questa compagine organizzata in tessuto, fa eco la singolarità di alcune grandi nodalità e quali la piazza del mercato e quella del Comune, il complesso di San Bernardino, quello di Collemaggio, quello del Castello, le cui immagini si impongono a livello territoriale. Nelle età successive alla fondazione, il processo espansivo, di trasformazione e di rinnovo, segue ancora la via maestra del disegno urbano, che costituisce il parametro emergente dell’urbanistica storica, col quale vengono modellati i vari scenari urbani, veri palcoscenici sui quali viene messa in scena e narrata la vita dei singoli cittadini e della comunità.
E’ con l’urbanistica del dopoguerra, che la geometria perde il suo tradizionale ruolo di dispositivo al servizio dell’architettura del paesaggio, per farsi strumento asettico al servizio dello zooning e degli standards urbanistici. Abbandonati i criteri ispirati alla raffigurabilità, gli spazi urbani si svuotano di significato, diventando anonimi ghetti monofunzionali, oppure enclave ispirate ad una visione catacombale della città. I cittadini spesso fuggono dalla periferia, per portarsi in palcoscenici a loro più congeniali, nell’accoglienza che si respira all’interno delle mura storiche.
Ci chiediamo allora: una città della cultura può conservare questo stato di acriticità di fronte ad uno spettacolo del genere? O invece non si sente l’obbligo di ripensare i luoghi della città alla luce di una visione nuova e integrata, per farne un sistema unitario di produzione culturale, con spazi non adempienti unicamente alle asettiche prescrizioni degli standards, o volti alla costruzione di autoreferenziali oggetti architettonici, situati nel mare dell’indistinto, ma luoghi che attingano innanzi tutto la loro qualità dalla costruzione di scenari dello stesso segno di quelli che fino a ieri abbiamo condiviso, muovendoci nel centro storico.
Riusciamo ad immaginare una rappresentazione teatrale o un concerto tra gli spazi di risulta di un quartiere della periferia, allo stesso modo con cui riusciamo a farlo in una piazza del centro storico, o all’interno del cortile di un palazzo? L’Aquila è una città dalla doppia personalità, dal volto asimmetrico. E’ nel dare vita ad un’architettura del paesaggio all’interno della sua compagine urbana, che l’Aquila si fa concreta città della cultura. Cosa si può fare per uscire da questa condizione per cui, in concomitanza e ancor prima che possa recuperare il suo centro storico, L’Aquila possa proiettarsi con lo spirito nuovo della città dell’industria culturale? Nella corrida che le è più congeniale?
E’ nella creazione di una struttura unificante, una sorta di gran bazar ambientale, capace di esibire scenari qualificati sotto il profilo dell’architettura del paesaggio, che può costruire il modello a cui ispirare il suo nuovo volto. Esiste uno stretto legame tra cultura, ambiente, architettura e turismo (è stato detto più volte), dalla cui combinazione si possono determinare soluzioni imprenditoriali inedite. E’ questo il nuovo paradigma a cui attingere perché il messaggio e gli stimoli lanciati dal centro storico, anziché apparire una nostalgica venerazione di una città legata al passato, possa rappresentarsi come il segreto strumento capace di produrre cultura, il segreto di un’aquila che vola.
La creazione di un Central Park, attestato lungo la fascia fluviale dell’Aterno, da Amiternum ad Aveja, consacrerebbe definitivamente la città a «cantiere aperto dell’industria della cultura». Un progetto articolato in tre ambiti (amiternino, fuori porta e vestino), che si propone anche come opportunità per ridisegnare l’asse maestro della città, con i suoi itinerari secondari, capace di riannodare i fili tra centro e periferia, compresa quella sorta in seguito all’emergenza sismica. Nel fare ciò la città porterebbe a compimento una metodologia progettuale che è stata di guida nella costruzione del suo centro storico.