Stupro in discoteca parla la vittima: «Tuccia meritava l’ergastolo»
La giovane si è trasferita in un’altra regione per iniziare una nuova vita. «Ho rischiato di morire»
Per me dovevano dargli l'ergastolo visto che, oltre alla violenza sessuale, che ho saputo dopo dai medici e da mia madre, perché non ricordo ancora nulla, io ho rischiato davvero di morire». Così dichiara all'ANSA la studentessa vittima della violenza sessuale nella notte tra l'11 e il 12 febbraio 2012 davanti a una discoteca di Pizzoli, all'indomani della conferma, da parte della Corte d'Appello dell'Aquila, della condanna a otto anni di carcere, inflitta in primo grado, per l'ex militare Francesco Tuccia. Lei ha ricominciato a vivere, si è trasferita al Nord per riprendere a studiare e ha trovato la forza di sostenere due esami. «Non so se siano giusti otto anni - continua - per i venti giorni in ospedale quando ho saputo di essere stata violentata, perché dell'epilogo drammatico di quella notte non ricordo nulla; per quello che ho passato e che sto continuano a provare; per l'esilio, che mi ha cambiato la vita, a cui sono stata costretta per andare via da luoghi dove mi conoscono e sanno della mia storia; per la vita e la spensieratezza precedente che non torneranno mai». «Ho ripreso a vivere grazie a me, alla mia famiglia, ma il processo non mi restituisce nulla, anche perché non posso raccontare a nessuno cosa mi è successo. Sono un'altra persona rispetto alla studentessa dell'Aquila, ho problemi di relazioni con gli altri. Anche se ho amici non mi fido di nessuno, ma soprattutto non mi fido di me, perché ora non so come riconoscere il bene e il male, non so se sono in grado. - spiega con voce decisa - Otto anni non mi restituiranno mai la ragazza che ero prima! Sono io che devo lavorare per ricostruire una persona almeno all'altezza di quella di prima. In tal senso, non so se non ricordare sia un bene o un male». Quanto al perdono, è chiara: «Non so davvero cosa rispondere, non ricordando nulla della violenza. Non lo conosco e non riesco a essere arrabbiata con lui, anche guardandolo non mi ha dato particolari sensazioni. Razionalmente, per quanto male mi ha fatto, meriterebbe l'ergastolo». L'unico momento in cui pare provare un minimo di sollievo rispetto al processo di ieri, la ragazza lo mostra quando conclude: «Ho pensato che partecipare al processo di appello fosse inutile, che non avrebbe risolto nulla. Questo fino a ieri mattina. Invece ora mi sento ripagata da questa ulteriore sofferenza che ho vissuto».
Sull’argomento interviene anche la madre della vittima: «Francesco non è il male ma ha compiuto il male rendendosi disponibile a compierlo. Prego per lui perché possa invece comprendere il bene». «Una sentenza - ha proseguito la donna - non può e non deve mai rappresentare uno strumento per giustiziare gli imputati bensì una correlazione giusta ed equa tra il reato compiuto e le conseguenze penali. Ciò non toglie che non è la sentenza che restituisce qualcosa alla parte offesa, ma è soltanto una pace interiore, che può venire dal superamento di ogni sentimento di rabbia, odio o rancore, cristianamente pregando per la grazia del perdono che è fonte di armonia con se stessi e con gli altri, a partire dalla propria famiglia. Ciò perché dal male possa nascere il bene». Quindi, un cenno all'operato dei giudici: «In un momento in cui molte persone si impegnano con dedizione a portare avanti l'azione per contrastare la violenza contro le donne, in un momento in cui ci si batte sulla convenzione di Istanbul recentemente ratificata dallo Stato Italiano, encomiabili giudici hanno pronunciato una risposta concreta con una sentenza coerente con i principi del documento comunitario non vanificando così l'opera di tutte le volontarie che si dedicano a tale scopo». L'avvocato difensore della giovane, Enrico Maria Gallinaro, il giorno dopo la sentenza di primo grado, ha sottolineato che «il riconoscimento dell'aggravante della crudeltà e delle sevizie, che arriva dopo una valutazione operata a questo punto da ben sei giudici, tra tribunale e Corte d'appello, stigmatizza in modo pieno quanto quella notte la mia assistita ha dovuto sopportare: un fatto che purtroppo oggi abbiamo visto accertato come un atto di inaudita crudeltà e violenza».
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