Tuccia, condanna definitiva e carcere
Inflitti 7 anni e 8 mesi all’ex militare. Il procuratore: «In questa vicenda la realtà ha superato qualunque film dell’orrore»
L’AQUILA. Nemmeno il verdetto di Cassazione lascia scampo all’ex militare Francesco Tuccia, accusato di avere violentato una studentessa universitaria davanti alla discoteca Guernica di Pizzoli. Gli «ermellini», dunque, gli hanno concesso solo un lieve sconto di pena: ora le porte del carcere stanno per spalancarsi. La condanna è stata confermata in via definitiva: dagli otto anni inflitti nei precedenti giudizi si è passati a 7 anni e otto mesi. Lo sconto è dovuto alla continuazione dei due reati a lui contestati: la violenza sessuale e le lesioni gravissime. L’impianto accusatorio non è stato certamente scalfito.
Il giovane irpino aveva lasciato la giovane a terra e sanguinante nel parcheggio esterno della discoteca. Quella sera c’erano quattordici gradi sottozero e solo l’intervento dei vigilantes del locale evitò che la studentessa morisse mentre Tuccia era tranquillamente rientrato nel locale per lavare le tracce di sangue. E se la sarebbe svignata se non fosse stato bloccato dagli stessi vigilantes. «In questa drammatica vicenda la realtà ha superato qualunque film dell’orrore», aveva detto nella sua requisitoria il sostituto procuratore generale della Cassazione Pietro Gaeta chiedendo la conferma della condanna di Tuccia emessa dalla Corte d’Appello il 6 dicembre del 2013. Dopo la lettura del verdetto pronunciato ieri dalla Terza sezione penale della Cassazione, presieduta da Claudia Squassoni, il pg Gaeta ha spiegato che la riduzione di quattro mesi della condanna è solo «un aggiustamento tecnico». «Il verdetto d’appello ha tenuto», ha aggiunto soddisfatto il Pg, «e la cosa importante è che in questa vicenda così drammatica sia stata confermata in pieno la ricostruzione dei giudici di primo e secondo grado per quanto riguarda la condotta e la qualificazione del reato. Per questo mi sembra un’ottima conferma e la rideterminazione della pena per i reati commessi in continuità anziché in concorso, è un dettaglio», ha concluso Gaeta.
Ponderato il commento di Enrico Gallinaro, legale di parte civile che ha seguito la studentessa e i suoi familiari nelle aule di giustizia e che con loro ha ormai un rapporto stretto e affettuoso. «I processi», ha detto Gallinaro, «non sono uno strumento di vendetta ma servono per accertare i fatti e attribuire le responsabilità. In certi processi è difficile trovare un vincitore perché di fronte alla gravità di alcune vicende, come questa, non vince mai nessuno».
Lo stesso concetto lo aveva espresso la mamma della ragazza, una donna di fede impegnata nel cattolicesimo di base. «La battaglia da combattere», ha detto, «è quella dei valori affettivi e una crudeltà come quella che è toccata a mia figlia si spiega solo con la mancanza di riferimenti umanistici nell’universo del ragazzo che ha compiuto questo scempio. La sentenza ha un valore risarcitorio: anche se nel caso di mia figlia è come se una vita fosse morta e tutto sia stato da ricostruire daccapo».
«La presenza, nel processo, del nostro Centro antiviolenza», ha detto l’avvocato Simona Giannangeli, «ha permesso di opporci alle difese che hanno mancato di rispetto nei riguardi della ragazza violentata. Un atteggiamento assurdo finalizzato a sostenere il consenso della studentessa che noi abbiamo dimostrato essere inesistente. Sarà opportuno che, anche in altri processi simili, gli interessi delle donne siano tutelati dai Centri antiviolenza».
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