Accusa ritrattata in aula indagati Cantagallo e Di Febo

L’ex sindaco Pd di Montesilvano sott’inchiesta con l'ex assessore. L’accusa: sono i mandanti di una falsa testimonianza al processo Ciclone. Nei computer degli indagati scoperte le foto della casa di un investigatore

PESCARA. «Gli ho detto a mia moglie, preparati, può darsi pure che mi rimettono in galera. Comunque ci vado, ci vado rivestito con la cravatta e con la camicia se mi ci mandano». Il giorno dopo una perquisizione in casa e il sequestro del suo computer, il 29 ottobre dell’anno scorso, l’ex assessore di Montesilvano Guglielmo Di Febo, imputato al processo Ciclone, si sfoga così parlando al telefono. Di Febo e l’ex sindaco Pd di Montesilvano Enzo Cantagallo sono indagati per falsa testimonianza in tribunale, un’inchiesta figlia del Ciclone: per la squadra mobile di Pescara e per il pm Gennaro Varone, sono Di Febo e Cantagallo i mandanti dell’accusa ritrattata in aula dal terzo indagato, Andrea Ferrante, per 8 anni braccio destro di Bruno Chiulli, l’imprenditore della Green Service e testimone chiave della procura che ha denunciato di aver pagato tangenti a Di Febo e Cantagallo.

Interrogato dalla polizia nel 2006, un mese e 5 giorni dopo l’arresto di Cantagallo, Ferrante ha rivelato di aver visto Chiulli lasciare una busta, forse con dentro dei soldi, nel bagno della piscina dell’ex sindaco ma, il 29 giugno dell’anno scorso quando si è seduto al banco dei testimoni, ha cambiato versione: «Mi ricordo di averlo dichiarato», ha detto, «però, non lo confermo perché è impossibile vedere dall’esterno di casa». La pena per la falsa testimonianza è più pesante della corruzione: da 2 a 6 anni di carcere.

Intercettato dalla Mobile, sputa rabbia al telefono Di Febo pensando al computer sequestrato dopo la dichiarazione di Ferrante nell’udienza: «Quando ti sequestrano il computer... dove tu c’hai scritto tutto, tutto e di più. Non so che tipo di ipotesi possono fare, capito? Perché questi», dice riferendosi alla polizia, «fanno i teoremi. Allora, lu computer, tu lo sai, no? Io ci tengo tutte le memorie, ho tutti, non lo so, non mi ricordo. Insomma quello che c’ho, capisci... pennette, cose». È scavando nella memoria del computer che la polizia ha trovato anche le foto della casa del sostituto commissario della Mobile Giancarlo Pavone, uno degli investigatori che ha dedicato anni a indagare sul presunto malaffare di Montesilvano. La traccia delle foto e di un video della casa di Pavone si trova in uno scambio di mail tra Di Febo e un altro dei 32 imputati del processo Ciclone, Paolo Di Blasio, ex assessore ed ex vicesindaco con Cantagallo, arrestato e rieletto in consiglio il 7 maggio scorso con 416 preferenze. Perché ci sono le foto della casa di Pavone nei computer degli imputati?, è la domanda chiave dell’indagine generata dal Ciclone? «In merito all’utilizzo che ne avrebbero fatto, allo stato delle indagini si possono fare solo delle ipotesi», scrive la Mobile in un rapporto riservato alla procura, «e la prima è la fabbricazione di un attacco calunnioso, probabilmente anonimo, teso a screditare l’azione investigativa. Tale strategia, del resto, non costituisce una novità nelle indagini del processo Ciclone». La seconda ipotesi, stando all’informativa, è questa: «Si può legittimante avanzare che gli indagati stessero studiando i particolari della vita privata del sostituto commissario Pavone per pianificare contro il predetto o la sua famiglia o i suoi beni, un’azione violenta, magari affidandone la realizzazione a un qualche manovale prezzolato del crimine».

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