Tutti assolti
Aceto: che figuraccia ospitiamo una pattumiera
Il primo pm che indagò sulla discarica di Bussi: senza l’inchiesta berremmo ancora acqua avvelenata
PESCARA. L’Abruzzo come una «regione pattumiera», la scoperta della discarica come un risultato già notevole «in un Paese come l’Italia» perché, come dice il giudice di Cassazione Aldo Aceto, «se non avessimo scoperto la discarica a quest’ora staremmo tutti a bere quell’acqua e invece dal 2007 non accade più: è un merito della magistratura e del Corpo Forestale». Aldo Aceto è stato il primo pm a lavorare all’inchiesta di Bussi, a sequestrare l’area quando saltò fuori il mercurio nel fiume e ad andare in Senato, nel marzo 2007, a raccontare che cosa stava accadendo in un misconosciuto centro che quell’anno era balzato alle cronache nazionali perché sede della «discarica più grande d’Europa».
«Abruzzo, regione pattumiera». Da oltre un anno Aceto, pescarese di 51 anni, guarda dall’alto la giustizia civile e penale in arrivo da tutta Italia perché è diventato giudice di Cassazione ma all’indomani della sentenza che ha dichiarato che i vertici della Montedison non hanno avvelenato le acque ha accettato di riandare indietro nella memoria, ai tempi in cui fu il primo pm a indagare sulla discarica. C’è un Aceto cittadino che commenta «che a livello mediatico l’Abruzzo non ha fatto un bella figura perché», aggiunge, «coltiviamo una pattumiera infinita e mi dispiace molto» e un Aceto magistrato che si lascia andare: «Non ci venissero a dire che nessuno sapeva niente, che non era vero, non era vero», ripete riproponendo il tema del “dolo”, il disastro doloso che la Corte d’Assise ha derubricato a colposo accogliendo le difese della Montedison. Un reato che comunque è stato cancellato dal tempo. «E’ il profilo soggettivo che è stato riqualificato», dice il giudice di piazza Cavour, «ma dal punto di vista tecnico non vedo una contraddizione tra il non avvelenamento e il disastro. La sentenza, di cui bisognerà leggere le motivazioni, dice che c’è stato un atteggiamento colposo ma quando io ho costruito l’accusa avevo elementi per ritenere che ci fosse la volontà. La mia resta, comunque, una visione parziale», aggiunge Aceto perché il fascicolo, poi, è passato nelle mani dei pm Anna Rita Mantini e Giuseppe Bellelli che hanno guidato il lungo processo. Così, quelle di Aceto, come preferisce chiamarle sono «impressioni» come ad esempio quella secondo cui non esiste una parallelismo tra il processo della ThyssenKrupp e quello di Bussi «perché in Abruzzo le conseguenze sono ancora lì, i rifiuti sono sempre nello stesso posto» mentre per il disastro dello stabilimento torinese la Cassazione «ha detto che la condotta è limitata a quel momento».
«Grazie alla scoperta della discarica non beviamo più quell’acqua». C’è un vuoto normativo in materia di reati ambientali? «La giurisprudenza sull’avvelenamento delle acque», spiega Aceto, «non è abbondante, i riferimenti non sono un approdo sicuro. In Italia non c’è ancora una casistica dell’avvelenamento delle acque e, direi, per fortuna. Ma questo non toglie al fatto la gravità. Se dal 2007 non beviamo più quell’acqua, se tutta la Val Pescara non beve più quell’acqua avvelenata come ha detto la relazione l’Istituto superiore della sanità è perché la discarica è stata scoperta e questo, nel nostro Paese, è già un risultato».
«Le sentenza vanno rispettate», ricorda il giudice Aceto, anche quando come in questo caso toccano da vicino la popolazione proprio perché, il processo di Bussi, ha parlato attraverso un bene primario: l’acqua. «Ma il processo penale è ragione», dice Aceto, «non è vendetta, passione, sentimento o populismo. L’incredulità ci può stare», dice il giudice, «ma il sentimento popolare è difficile da conciliare con i tecnicismi, con il codice». Eppure anche Aceto ha un moto di ribellione se si parla del suo Abruzzo perché, come chiosa, «non ci fa onore ospitare una pattumiera infinita, non è una bella figura».
©RIPRODUZIONE RISERVATA