Assolto per gli spari alla lavanderia
Non è stato Galdo a fare fuoco contro il negoziante di via Croce
PESCARA. Due colpi di pistola, sparati ad altezza d’uomo, per uccidere. Bersaglio, il titolare di una lavanderia, salvato da un’accortezza: avere blindato il vetro del proprio negozio. A distanza di oltre un anno dalla sparatoria di via Benedetto Croce, il tribunale di Pescara ha stabilito che a fare fuoco non fu Mirko Galdo.
Il collegio presieduto da Marco Bortone ha infatti assolto il 28enne pescarese - per non avere commesso il fatto - dall’accusa di concorso in tentato omicidio premeditato, aggravato dai futili motivi. E’ storia del 2 settembre 2008.
Una spedizione «punitiva» contro il proprietario della lavanderia di via Benedetto Croce, 30 anni, la cui unica colpa era stata quella di essere uscito in strada per sedare una violenta lite tra un giovane e la sua fidanzata. «Tanto ritorno», aveva minacciato il ragazzo lanciando un’occhiataccia al negoziante e a suo fratello.
Era stato di parola. Dieci minuti dopo, si era presentato in sella a uno scooter di grossa cilindrata davanti all’esercizio di Porta Nuova, ma a scaricare due colpi di pistola contro la vetrina della lavanderia non era stato lui, ma il giovane con il casco che sedeva dietro.
I colpi, esplosi a un metro e mezzo di altezza, si erano infranti contro la vetrina antiproiettile, che aveva così protetto il negoziante, già rientrato nel locale. Una vendetta per punire l’intromissione nella discussione.
Il conducente del mezzo era stato fermato subito dai carabinieri con l’accusa di essere uno dei due protagonisti del blitz. Aveva negato tutto, ma professarsi innocente non gli è bastato a evitare poco tempo fa una condanna a quattro anni di carcere, emessa con il rito abbreviato.
Il complice, invece, aveva fatto perdere le sue tracce. Mirko Galdo era stato arrestato due settimane dopo con un’ordinanza del gip perché ritenuto l’esecutore materiale. Sarebbe stato lui l’uomo che viaggiava sul sellino posteriore. Come si era arrivati a Galdo? Decisiva era stata un’intercettazione ambientale. Portato in caserma dopo avere subìto una perquisizione, il 28enne aveva detto nella sala d’attesa dei carabinieri: «Tanto nessuno ha visto niente, se non hanno riconosciuto l’altro, figurati se hanno potuto riconoscere me. Stiamo attenti quando parliamo». Quanto allo scooter, risultato di proprietà di una terza persona risultata estranea ai fatti, era rimasto custodito in un garage fin dal giorno della sparatoria. L’arma, invece, non era stata ritrovata. Probabilmente, dopo la sparatoria, gli autori avevano deciso di disfarsene gettandola nel fiume o occultandola in un altro luogo.
Dopo più di un mese di carcere, il tribunale del Riesame aveva accolto l’istanza presentata dal difensore di Galdo, l’avvocato Luca Sarodi, e il giovane era tornato in libertà. Per i giudici del Riesame, infatti, l’intercettazione ambientale nella quale, secondo l’accusa, il giovane aveva ammesso la propria responsabilità, non sarebbe stata sufficiente a giustificare a suo carico i gravi indizi di colpevolezza, che non avevano il requisito della univocità. Smontata così parte dell’ordinanza, la partita processuale - dopo il rinvio a giudizio - si è spostata in tribunale, dove ha fatto breccia la tesi difensiva secondo la quale non c’erano prove né soprattutto testimoni che potessero affermare con sicurezza che era stato Galdo a fare fuoco. Lo stesso pm, Gennaro Varone, che non era il titolare dell’inchiesta, ha concluso la requisitoria sollecitando un’assoluzione con la vecchia formula dell’insufficienza di prove. Ma il tribunale ha sentenziato l’assoluzione piena.
Il collegio presieduto da Marco Bortone ha infatti assolto il 28enne pescarese - per non avere commesso il fatto - dall’accusa di concorso in tentato omicidio premeditato, aggravato dai futili motivi. E’ storia del 2 settembre 2008.
Una spedizione «punitiva» contro il proprietario della lavanderia di via Benedetto Croce, 30 anni, la cui unica colpa era stata quella di essere uscito in strada per sedare una violenta lite tra un giovane e la sua fidanzata. «Tanto ritorno», aveva minacciato il ragazzo lanciando un’occhiataccia al negoziante e a suo fratello.
Era stato di parola. Dieci minuti dopo, si era presentato in sella a uno scooter di grossa cilindrata davanti all’esercizio di Porta Nuova, ma a scaricare due colpi di pistola contro la vetrina della lavanderia non era stato lui, ma il giovane con il casco che sedeva dietro.
I colpi, esplosi a un metro e mezzo di altezza, si erano infranti contro la vetrina antiproiettile, che aveva così protetto il negoziante, già rientrato nel locale. Una vendetta per punire l’intromissione nella discussione.
Il conducente del mezzo era stato fermato subito dai carabinieri con l’accusa di essere uno dei due protagonisti del blitz. Aveva negato tutto, ma professarsi innocente non gli è bastato a evitare poco tempo fa una condanna a quattro anni di carcere, emessa con il rito abbreviato.
Il complice, invece, aveva fatto perdere le sue tracce. Mirko Galdo era stato arrestato due settimane dopo con un’ordinanza del gip perché ritenuto l’esecutore materiale. Sarebbe stato lui l’uomo che viaggiava sul sellino posteriore. Come si era arrivati a Galdo? Decisiva era stata un’intercettazione ambientale. Portato in caserma dopo avere subìto una perquisizione, il 28enne aveva detto nella sala d’attesa dei carabinieri: «Tanto nessuno ha visto niente, se non hanno riconosciuto l’altro, figurati se hanno potuto riconoscere me. Stiamo attenti quando parliamo». Quanto allo scooter, risultato di proprietà di una terza persona risultata estranea ai fatti, era rimasto custodito in un garage fin dal giorno della sparatoria. L’arma, invece, non era stata ritrovata. Probabilmente, dopo la sparatoria, gli autori avevano deciso di disfarsene gettandola nel fiume o occultandola in un altro luogo.
Dopo più di un mese di carcere, il tribunale del Riesame aveva accolto l’istanza presentata dal difensore di Galdo, l’avvocato Luca Sarodi, e il giovane era tornato in libertà. Per i giudici del Riesame, infatti, l’intercettazione ambientale nella quale, secondo l’accusa, il giovane aveva ammesso la propria responsabilità, non sarebbe stata sufficiente a giustificare a suo carico i gravi indizi di colpevolezza, che non avevano il requisito della univocità. Smontata così parte dell’ordinanza, la partita processuale - dopo il rinvio a giudizio - si è spostata in tribunale, dove ha fatto breccia la tesi difensiva secondo la quale non c’erano prove né soprattutto testimoni che potessero affermare con sicurezza che era stato Galdo a fare fuoco. Lo stesso pm, Gennaro Varone, che non era il titolare dell’inchiesta, ha concluso la requisitoria sollecitando un’assoluzione con la vecchia formula dell’insufficienza di prove. Ma il tribunale ha sentenziato l’assoluzione piena.