Autobiografia di una Repubblica
Le radici dell’Italia di Berlusconi in un libro dello storico Guido Crainz.
Vede nero nel presente e nel futuro dell’Italia, Guido Crainz. Avrebbe quasi voglia di unirsi al «viaggiatore cerimonioso» della poesia di Giorgio Caproni che dice: «Di questo sono certo: io/ son giunto alla disperazione/calma, senza sgomento./Scendo. Buon proseguimento». Il Paese dal quale ha la tentazione di accomiatarsi Crainz è quello di oggi, descritto nel suo nuovo saggio, «L’autobiografia di una Repubblica-Le radici dell’Italia attuale» (Donzelli, 241 pagine, 16,50 euro), da pochi giorni in libreria.
Friulano di Udine, docente ordinario di Storia all’università di Teramo, Crainz - schierato a sinistra in maniera critica - è autore di saggi che tracciano un profilo non scontato dell’Italia del Novecento, fra i quali «Il Paese mancato» del 2003. Del suo nuovo libro Crainz parla in questa intervista al Centro.
Il titolo del suo libro «Autobiografia di una Repubblica» rimanda al fascismo come «autobiografia della nazione» di Piero Gobetti. E’ così pessimista sulle sorti del Paese?
«Il mio libro, è vero, si chiede: che Paese è il nostro?, come Gobetti nei primi anni ’20. E la mia risposta è che l’Italia di oggi è il frutto del prevalere, nella nostra Storia, di alcune tendenze forti e di un modo di intendere la modernizzazione che erano presenti fin dagli inizi della Repubblica. Per questo, raccontare l’oggi è raccontare questo processo, ma senza alcuna tentazione deterministica».
Quali sono le principali «tendenze forti» che più hanno influito sulla formazione dell’Italia di oggi?
«La tendenza principale è stata quella dello sviluppo senza regole. Cioè l’idea di un interesse individuale che fosse incurante e sprezzante verso l’interesse collettivo. Però mi sembra un po’ comoda quella lettura della nostra Storia che rimanda ad alcune caratteristiche antropologiche costanti per spiegare l’oggi, perché questo è un modo per giustificarci e autoassolverci. Io non dico che siamo fatti così, ma che siamo diventati così. In questo Paese, infatti, ci sono stati modelli minoritari ma significativi di un modo diverso di essere italiani».
Quali modelli, per esempio?
«Penso alla Resistenza, per esempio; e nello stesso “miracolo economico” c’era un modo di intendere il futuro che era diverso. Penso, poi, al movimento studentesco e operaio degli anni ’60- ’70. Penso cioè a un modo di intendere lo sviluppo che non si accompagni al laceramento del tessuto civile del Paese come il rampantismo degli anni ’80».
L’individualismo e l’insofferenza per le regole cresciuti negli anni del Boom e consolidatisi negli anni ’80 sono ancora alla base di quell’Italia di oggi che lei critica nel suo libro?
«Sì. Mi ha molto colpito - e lo riporto nel libro - la discussione che ci fu nei primi anni ’90, che fu un interrogarsi sulla crisi del Paese. Sergio Romano, che negli anni di Mani pulite, scriveva, per esempio: attenzione stiamo facendo quello che facemmo dopo la caduta del fascismo: allora demmo la colpa di tutto a Mussolini, oggi ai partiti, dimenticando che dietro a tutto questo c’è il sistema-Paese. Oppure Antonio Gambino che, in quegli stessi anni, ammoniva: il problema non è che in Italia ci sono più disonesti che altrove, ma che manca una rete attiva di onesti in grado di fondare un modo diverso di stare nelle istituzioni e nel Paese».
Da allora che cosa è cambiato?
«Da allora la situazione è largamente peggiorata. Per questo non capisco come quegli stessi opinionisti, che allora esprimevano giudizi così radicali, abbiano smarrito, oggi, quell’ansia di capire».
Berlusconi incarna l’archetipo di quell’italiano insofferente delle regole, che a lei non piace: vince anche per questo?
«Secondo me, sì. Non solo è un modello di quel tipo di italiano ma dà anche spazio al Paese che ama l’assenza di regole».
Nel libro lei indica nell’«individualismo protetto» uno dei mali del Paese: che cos’è?
«E’ una cosa che, storicamente, introduce il fascismo con la creazione dell’Iri come risposta alla Grande crisi del 1929. Cioè un sistema in cui lo Stato si assume le perdite e il privato intasca i profitti: un sistema opposto al New Deal di Roosevelt. La rivolta degli industriali contro il primo centrosinistra, negli anni ’60, si spiegava con la volontà di mantenere quel sistema. Se oggi dovessi scegliere il modello, in assoluto, migliore del riformismo di quegli anni prenderei la “Nota aggiuntiva” al Bilancio del 1962 di Ugo la Malfa che quel sistema mirava a contrastare».
Ritiene che il dopo Berlusconi sia già iniziato?
«Dal punto di vista del lungo periodo, siamo già morti berlusconiani. L’Italia che si è consolidata, nell’epoca di Berlusconi, è un’Italia di lunga durata. Ragionare sul futuro è difficile ma, riguardo al presente, va detto che a permettere a Berlusconi di andare avanti con comportamenti inaccettabili in altri Paesi civili è il fatto che il Cavaliere sia privo di alternative interne o esterne al suo schieramento. Le ipotesi incarnate da Fini di una destra normale non si sono mai realizzate in Italia. Come diceva Montanelli, con dolore: la destra italiana non vuole essere normale. Quello di Berlusconi che regge così a lungo la scena, nonostante tutto quel che è accaduto negli ultimi 15 anni, è un caso clamoroso che gli storici futuri studieranno. In Italia non c’è né una destra normale né una sinistra normale. Così si spiega la lunga durata di Berlusconi. E questo è il punto su cui tutti dovrebbero riflettere».
Friulano di Udine, docente ordinario di Storia all’università di Teramo, Crainz - schierato a sinistra in maniera critica - è autore di saggi che tracciano un profilo non scontato dell’Italia del Novecento, fra i quali «Il Paese mancato» del 2003. Del suo nuovo libro Crainz parla in questa intervista al Centro.
Il titolo del suo libro «Autobiografia di una Repubblica» rimanda al fascismo come «autobiografia della nazione» di Piero Gobetti. E’ così pessimista sulle sorti del Paese?
«Il mio libro, è vero, si chiede: che Paese è il nostro?, come Gobetti nei primi anni ’20. E la mia risposta è che l’Italia di oggi è il frutto del prevalere, nella nostra Storia, di alcune tendenze forti e di un modo di intendere la modernizzazione che erano presenti fin dagli inizi della Repubblica. Per questo, raccontare l’oggi è raccontare questo processo, ma senza alcuna tentazione deterministica».
Quali sono le principali «tendenze forti» che più hanno influito sulla formazione dell’Italia di oggi?
«La tendenza principale è stata quella dello sviluppo senza regole. Cioè l’idea di un interesse individuale che fosse incurante e sprezzante verso l’interesse collettivo. Però mi sembra un po’ comoda quella lettura della nostra Storia che rimanda ad alcune caratteristiche antropologiche costanti per spiegare l’oggi, perché questo è un modo per giustificarci e autoassolverci. Io non dico che siamo fatti così, ma che siamo diventati così. In questo Paese, infatti, ci sono stati modelli minoritari ma significativi di un modo diverso di essere italiani».
Quali modelli, per esempio?
«Penso alla Resistenza, per esempio; e nello stesso “miracolo economico” c’era un modo di intendere il futuro che era diverso. Penso, poi, al movimento studentesco e operaio degli anni ’60- ’70. Penso cioè a un modo di intendere lo sviluppo che non si accompagni al laceramento del tessuto civile del Paese come il rampantismo degli anni ’80».
L’individualismo e l’insofferenza per le regole cresciuti negli anni del Boom e consolidatisi negli anni ’80 sono ancora alla base di quell’Italia di oggi che lei critica nel suo libro?
«Sì. Mi ha molto colpito - e lo riporto nel libro - la discussione che ci fu nei primi anni ’90, che fu un interrogarsi sulla crisi del Paese. Sergio Romano, che negli anni di Mani pulite, scriveva, per esempio: attenzione stiamo facendo quello che facemmo dopo la caduta del fascismo: allora demmo la colpa di tutto a Mussolini, oggi ai partiti, dimenticando che dietro a tutto questo c’è il sistema-Paese. Oppure Antonio Gambino che, in quegli stessi anni, ammoniva: il problema non è che in Italia ci sono più disonesti che altrove, ma che manca una rete attiva di onesti in grado di fondare un modo diverso di stare nelle istituzioni e nel Paese».
Da allora che cosa è cambiato?
«Da allora la situazione è largamente peggiorata. Per questo non capisco come quegli stessi opinionisti, che allora esprimevano giudizi così radicali, abbiano smarrito, oggi, quell’ansia di capire».
Berlusconi incarna l’archetipo di quell’italiano insofferente delle regole, che a lei non piace: vince anche per questo?
«Secondo me, sì. Non solo è un modello di quel tipo di italiano ma dà anche spazio al Paese che ama l’assenza di regole».
Nel libro lei indica nell’«individualismo protetto» uno dei mali del Paese: che cos’è?
«E’ una cosa che, storicamente, introduce il fascismo con la creazione dell’Iri come risposta alla Grande crisi del 1929. Cioè un sistema in cui lo Stato si assume le perdite e il privato intasca i profitti: un sistema opposto al New Deal di Roosevelt. La rivolta degli industriali contro il primo centrosinistra, negli anni ’60, si spiegava con la volontà di mantenere quel sistema. Se oggi dovessi scegliere il modello, in assoluto, migliore del riformismo di quegli anni prenderei la “Nota aggiuntiva” al Bilancio del 1962 di Ugo la Malfa che quel sistema mirava a contrastare».
Ritiene che il dopo Berlusconi sia già iniziato?
«Dal punto di vista del lungo periodo, siamo già morti berlusconiani. L’Italia che si è consolidata, nell’epoca di Berlusconi, è un’Italia di lunga durata. Ragionare sul futuro è difficile ma, riguardo al presente, va detto che a permettere a Berlusconi di andare avanti con comportamenti inaccettabili in altri Paesi civili è il fatto che il Cavaliere sia privo di alternative interne o esterne al suo schieramento. Le ipotesi incarnate da Fini di una destra normale non si sono mai realizzate in Italia. Come diceva Montanelli, con dolore: la destra italiana non vuole essere normale. Quello di Berlusconi che regge così a lungo la scena, nonostante tutto quel che è accaduto negli ultimi 15 anni, è un caso clamoroso che gli storici futuri studieranno. In Italia non c’è né una destra normale né una sinistra normale. Così si spiega la lunga durata di Berlusconi. E questo è il punto su cui tutti dovrebbero riflettere».