Bussi, tutti assolti. Ma se l'accusa avesse puntato su reati colposi?

Un tema degli ultimi mesi è quello della "certezza dell'esito". Può essere di difficile compresione, ma la realtà di una serie di sentenze assolutorie che hanno sull'opinione pubblica un effetto dirompente, lo rende un concetto semplice ed utile per elaborare anche i lutti peggiori. Assolti gli imputati dell'Aquila, assolti anche quelli del processo Eternit ed ora anche il caso Bussi finisce nella calssifica dei nessuno è colpevole, anche se l'acqua era davvero avvelenata e la più grande discarica d'Europa è ancora lì.

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Allora qual è la chiave di lettura dell'ennesima assoluzione che scatenerà reazioni in tutto l'Abruzzo e oltre? La risposta è proprio e solo in tre parole: certezza dell'esito. Ed è rivolta alla procura, o meglio a quei magistrati che hanno tentato di far condannare 17 persone per un delitto gravissimo che prevede la volontà, cioè il dolo specifico, a commettere una strage attraverso l'avvelenamento dell'acqua che esce dai nostri rubinetti. Era davvero possibile dimostrarlo con le prove portate in aula? Si poteva immaginare una condanna collettiva a 17 anni di carcere di altrettanti personaggi per un reato che è molto vicino all'omicidio volontario magari premeditato attraverso un avvelamento voluto e studiato a tavolino della nostra acqua? No, non lo era. Anzi, è bastato che uno di quegli imputati, ormai 84enne, si sedesse in aula e, molto emozionato, chiedesse ai giudici: mi spiegate una cosa? Perché, dopo avre lavorato per anni a Milano, io avrei deciso di tornare a vivere nella mia città, insieme a mia moglie e ai miei figli, sapendo di aver avvelenato l'acqua che bevo ogni giorno? La domanda è stata disarmente. Forse era più semplice, per l'accusa, limitarsi a chiedere condanne per un delitto colposo, dovuto a imperizia, imprudenza o negligenza, senza ottenere pene roboanti ma con la certezza dell'esito.