CARO PONTEFICE, ALIMENTA LA SPERANZA
Cento lettere per descrivere la realtà abruzzese a un uomo dotato di una capacità d'ascolto straordinaria come Papa Francesco: è l'invito che il giornale rivolge a tutti voi. I messaggi vanno inviati via mail a . Oggi pubblichiamo le prime lettere, a partire da questa che è stata scritta dal nostro Giustino Parisse
Papa Francesco,
mi chiamo Giustino Parisse, sono un giornalista del quotidiano d’Abruzzo il Centro e abito in una frazione del Comune dell’Aquila, in Abruzzo. Le sto scrivendo oggi, 23 settembre 2013, non a caso. Ventitrè anni fa, in questo stesso giorno, la mia vita cambiò. In una graziosa chiesa nel Comune di Pizzoli dedicata a San Lorenzo, fu celebrato, da don Dante Di Nardo, il mio matrimonio. Avevo deciso di mettere la testa a posto come si dice dalle nostre parti. Più che un giorno bello fu un giorno pieno di futuro e di speranza.
Insieme a mia moglie Dina Sette iniziavamo una bella storia, un percorso di vita che nella famiglia avrebbe dovuto avere il suo fulcro dando un senso compiuto alla nostra esistenza. Entrambi veniamo da famiglie non ricche ma dignitose. I miei genitori sono stati contadini per tutta la vita. I miei suoceri non si sono risparmiati un giorno. Lavoro, famiglia, preghiera, senso della comunità, forte legame con le radici. Così sono cresciuto e ,come me, tanti altri miei compaesani. Sono nato a Onna, un manipolo di case al centro della conca aquilana, a due passi dal capoluogo d’Abruzzo, L’Aquila. Le mie risorse economiche, fisiche (e perché no spirituali) sono state impegnate per quasi 20 anni a costruire, in via Oppieti 30, il nido per me, mia moglie e i miei due pargoletti nati nel 1991 e 1993: un maschio, Domenico e una femmina, Maria Paola. Ho cercato di fare del mio meglio per dare loro un’educazione che potesse tornare utile alla loro vita adulta. Ho tentato di farli innamorare della loro terra che è stata la terra dei loro antenati da almeno dieci generazioni.
Una famiglia felice? Sì una famiglia felice se per felice si intende la condivisione di valori comuni e di piccoli momenti che _ oggi _ penso siano più importanti di tanti falsi miti a cui la modernità ci ha abituato.
Poi è arrivato il sei aprile del 2009. Il terremoto che ha “spezzato” L’Aquila si è portato via 309 persone, fra cui molti studenti universitari fuori sede. La mia famiglia è stata distrutta: sotto le macerie sono rimasti i miei due figli di 18 e 16 anni e mio padre, Domenico, di 75. Mia madre, Maria, è rimasta ferita. Mio fratello Renzo si è salvato per puro caso. Io e mia moglie siamo vivi anche se stavamo in quell’abitazione dove per meno di 30 secondi è entrata Sorella morte. Quando il suo predecessore Benedetto XVI venne fra i resti del mio paesello fu per me, e per tutti noi, una luce che per pochi minuti illuminò il tunnel buio della disperazione. Volevo chiedere a Lui, Benedetto : perché tutto questo? Perché Dio mi ha punito non solo portandomi via i miei due ragazzi e mio padre ma anche dandomi l’aggravante di restare vivo?
Dopo quasi 5 anni il dolore non svanisce, anzi cresce in maniera esponenziale. A volte prendo in mano la Bibbia e sfoglio le pagine in cui viene raccontata la storia di Giobbe il quale nonostante tutto riesce a essere fedele a Dio. Io, le confesso, faccio fatica. Vorrei chiedere anche a Lei , Francesco: perché tutto questo? Perché non posso avere la gioia di abbracciare e stringere i miei figli ma devo andarli a visitare nel cimitero, in una triste cappellina, la cui porta di ingresso è per me come un coltello infilato nel cuore, a immagine della statua di Maria Addolorata?
Ma no, faccia come se non le avessi chiesto nulla. So che non potrei avere una risposta. Eppure mi resta forte il senso del mistero della fede. Fra le tante parole che mi sono state dette dopo la tragedia mi colpì quella di un amico sacerdote: immagina - affermò - se quel mistero, il mistero della fede, non ci fosse. Sì, se non ci fosse ogni giorno sarebbe inutile, vuoto, anche se, dal punto di vista materiale, avessimo tutto a nostra disposizione (e purtroppo Lei sa bene che non è così per la gran parte delle famiglie strette in una crisi economica che sembra non finire mai).
Una cosa però non posso fare a meno di chiederLe. Santità, faccia in modo che grazie alle sue parole, al suo esempio, alla forza del messaggio cristiano, in noi non venga mai meno la fiammella della speranza, quella fiammella capace di rischiarare la notte e scoprire l’alba di un giorno sereno. La parola serenità, dal 6 aprile 2009, è per me fuori dal vocabolario. Ma non è detto che fra qualche anno _ passeggiando dentro i borghi ricostruiti e ascoltando le voci dei bambini che si rotolano nell’erba di un giardino _ il cuore possa alleggerirsi, gli occhi chiudersi guardando il cielo azzurro, le orecchie diventare insensibili alle urla disperate dei padri e delle madri che ancora oggi risuonano fra i vicoli che attendono le nuove case. Santità, se volesse venire a far visita a noi aquilani sappia che siamo già con le braccia aperte. Per qualche momento il peso della vita ci sembrerà sopportabile, e chi non c’è più , chissà, magari scenderà per un attimo a consolarci.
. Giustino Parisse