Ceci, indagini sulla banda dei kalashnikov
Omicidio, la polizia concentrata sugli assalti ai portavalori e sull'imminente processo
PESCARA. Gli hanno sparato alle spalle come si fa con gli infami, come, nel codice della mala, vanno trattati i traditori. Mandante e movente dell'omicidio di Italo Ceci, il pentito della banda Battestini, stanno tutti in quell'ultimo fotogramma. Sono quei tre colpi alla schiena la firma lasciata dall'assassino che certamente arriva dal passato dell'ex bandito, ma non necessariamente da quello più remoto. È per questo che le indagini della Mobile diretta da Pierfrancesco Muriana stanno ripercorrendo non solo la storia di Ceci, ma soprattutto quella dei suoi ex compagni. Non di Rolando o Pasquale Battestini, entrambi morti, ma di Massimo Ballone e dei suoi «soci» più recenti come l'ambulante pescarese Paolo De Luca, l'ultrà biancazzurro Mimmo Nobile o l'altro pescarese Maurizio Longo: è anche sulla banda dei kalashnikov arrestata dai carabinieri a maggio del 2007, dopo dieci anni e diciassette colpi tra Pescara e Chieti e un bottino di oltre tre milioni di euro (vedi tabella a fianco), che gli investigatori si stanno concentrando.
Una banda di 16 persone, attualmente libere, che per le condanne definitive di quei colpi (in secondo grado hanno avuto dai 4 ai dodici anni) stanno ancora aspettando la Cassazione, ma per molte delle quali pesa come un macigno il processo che si celebrerà a Chieti il prossimo 3 febbraio: quello per il colpo più fruttuoso e violento, l'ultimo, del 3 febbraio 2006, quando con mitra e molotov assaltarono il furgone portavalori dell'Ivri, a Dragonara, dato alle fiamme prima della fuga con quasi due milioni di euro. Ufficialmente fu il bossolo di kalashnikov trovato a Dragonara a tradirli, ma furono le dichiarazioni poi ritrattate di Nino Mancinelli (morto suicida quest'estate durante lo scontro a fuoco con i carabinieri in una banca di Francavilla) a incastrarli. Accuse tutte da dimostrare, ma che comunque offrono un ulteriore scenario a chi indaga sull'omicidio di Italo Ceci. Un uomo che aveva rotto con il suo passato, ma di cui nel rione San Donato c'è ancora chi ricorda le sue scorribande da ragazzo a bordo della Dunbaghi rossa di Ballone.
«Erano molto legati, ma Ceci», dice chi li ha conosciuti entrambi, «rispetto agli altri aveva un cervello più fino e fece altre scelte». Fino alla sera di venerdì, quando un killer, mancino, lo ha inchiodato per sempre al suo passato. Sarebbero due, secondo i ricordi di chi li ha conosciuti, i mancini della banda Battestini. Uno morì nello scontro a fuoco di Roma. L'altro, raccontano, è ancora vivo.
Una banda di 16 persone, attualmente libere, che per le condanne definitive di quei colpi (in secondo grado hanno avuto dai 4 ai dodici anni) stanno ancora aspettando la Cassazione, ma per molte delle quali pesa come un macigno il processo che si celebrerà a Chieti il prossimo 3 febbraio: quello per il colpo più fruttuoso e violento, l'ultimo, del 3 febbraio 2006, quando con mitra e molotov assaltarono il furgone portavalori dell'Ivri, a Dragonara, dato alle fiamme prima della fuga con quasi due milioni di euro. Ufficialmente fu il bossolo di kalashnikov trovato a Dragonara a tradirli, ma furono le dichiarazioni poi ritrattate di Nino Mancinelli (morto suicida quest'estate durante lo scontro a fuoco con i carabinieri in una banca di Francavilla) a incastrarli. Accuse tutte da dimostrare, ma che comunque offrono un ulteriore scenario a chi indaga sull'omicidio di Italo Ceci. Un uomo che aveva rotto con il suo passato, ma di cui nel rione San Donato c'è ancora chi ricorda le sue scorribande da ragazzo a bordo della Dunbaghi rossa di Ballone.
«Erano molto legati, ma Ceci», dice chi li ha conosciuti entrambi, «rispetto agli altri aveva un cervello più fino e fece altre scelte». Fino alla sera di venerdì, quando un killer, mancino, lo ha inchiodato per sempre al suo passato. Sarebbero due, secondo i ricordi di chi li ha conosciuti, i mancini della banda Battestini. Uno morì nello scontro a fuoco di Roma. L'altro, raccontano, è ancora vivo.
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