Droga legale o no, toghe e politici divisi
Woodcock e Roberti: la repressione è fallita. Le frasi dei pm riaprono il dibattito. Anche in Abruzzo
PESCARA. C’è chi la vuole legale. Come il sostituto procuratore di Napoli Henry John Woodcock. Che nei giorni scorsi, con una lettera inviata al quotidiano La Repubblica, citando la Direzione nazionale antimafia (Dna), ha ricordato il «totale fallimento dell’azione repressiva» contro la vendita della cannabis. E non è un caso che l’apertura alla «depenalizzazione», suggerita al legislatore dalla Dna per favorire la «deflazione dei carichi giudiziari», la «possibilità di dedicarsi al contrasto di fenomeni criminali più gravi» e sottrarre «alle gang» un mercato «altamente redditizio» arrivi da un magistrato impegnato sul delicato fronte di Napoli, «da alcuni additata come la capitale dell’illegalità». Sulla stessa lunghezza d’onda di Woodcock, c’è anche il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. «Siamo favorevoli a una disciplina che attribuisca ai Monopoli di Stato, in via esclusiva la coltivazione, lavorazione e vendita della cannabis e dei suoi derivati», ha spiegato non più tardi di qualche giorno fa. Piazzando, però, anche dei paletti: «Siamo però radicalmente contrari alla previsione di autorizzare la coltivazione della cannabis ai privati». Posizioni chiare che, tuttavia, si scontrano con quelle altrettanto autorevoli di altri esponenti del mondo della politica, della medicina e della cultura. Per non parlare delle opinioni di altri magistrati che la pensano in modo diametralmente opposto. Come nel caso del capo della Procura di Catanzaro, Nicola Gratteri, convinto che la «cannabis legale oltre a essere immorale non servirebbe a colpire le mafie». Quel che è certo è che, al di là delle posizioni e del dibattito aperto nel Paese sulla opportunità o meno di legalizzare il mercato delle droghe leggere, dal 2013 un decreto dell’allora ministro alla Salute, Renato Balduzzi, ha aperto le porte all’uso terapeutico dei «medicinali di origine vegetale a base di cannabis». Ossia hashish, marijuana, olio, resina, foglie e infiorescenze. Spianando così la strada all’iniziativa legislativa di una decina di regioni che ne hanno recepito l’indirizzo sul proprio territorio. Tra queste, anche l’Abruzzo che il 4 gennaio 2014 ha approvato la legge sulle «Modalità di erogazione dei farmaci e dei preparati galenici magistrali a base di cannabinoidi per finalità terapeutiche». Una legge che porta il nome dell’allora consigliere regionale di Rifondazione comunista, Maurizio Acerbo, e considerata all’avanguardia sull’intero territorio nazionale. Eppure, nonostante il via libera di Palazzo dell’Emiciclo, da allora la normativa è rimasta di fatto inattuata. Il decreto attuativo, che dovrebbe mettere in pratica la legge, «è pieno zeppo di paletti», incalza Acerbo. Che non si arrende. Anzi torna alla carica. E il 24 maggio sarà all’audizione in commissione vigilanza della Regione, con Gian Vincenzo D’Andrea, vice presidente fondazione terapia del dolore, e l’avvocato radicale Vincenzo Di Nanna, per smontare quei paletti.