Il pianista, con il suo gruppo, sarà ospite della stagione della Società Luigi Barbara in un concerto fuori abbonamento
Einaudi, compositore fuori dalla norma
L’artista propone a Pescara il nuovo album «Nightbook» che dà il titolo al tour
Nightbook, il suo nuovo disco, è anche il titolo del suo nuovo tour che farà tappa a Pescara domani, alle 21 nel teatro Massimo per la stagione musicale della Società Luigi Barbara (si veda riquadro).
Lui è Ludovico Einaudi, classe 1955, torinese, compositore, pianista, autore di colonne sonore, dal cognome ingombrante (è il figlio dell’editore Giulio e nipote del presidente della Repubblica Luigi), musicista senza barriere, in quest’intervista racconta il suo punto di vista sul mondo delle note.
«Nightbook», lei scrive, è il punto di passaggio tra la luce e il buio, tra il noto e l’ignoto. Vuole spiegare meglio questo concetto?
«Penso che innanzitutto nella vita di un compositore, di un artista ci sia sempre il desiderio di esplorare territori nuovi nella propria creatività. Il mio lavoro ha rappresentato l’apertura verso nuove stanze, spazi musicali, nuove emozioni, nuove sensazioni, che, diciamo, aprono, illuminano le parti più oscure, più ombrose. Quella che cerco di proporre è una caratteristica più sognante, onirica, vicino al’inconscio».
Non è la prima volta che viene in Abruzzo. Come trova la regione da un punto di vista musicale? E in generale come valuta la situazione della provincia?
«La situazione della provincia italiana mi sembra in generale più interessante perché consente degli spazi in cui si riesce ancora a lavorare in modo approfondito, c’è maggiore spazio per i rapporti umani. Le grandi città sono diventate così caotiche e pretendono un tenore di vita così impegnativo che poi finiscono per togliere l’ossigeno anche a chi ha dei desideri diversi. Ricordo che venni a Pescara un paio di anni fa, all’interno di un festival che aveva una grande storia, e quindi aveva anche un grande pubblico, attento. L’ultima volta che sono stato in Abruzzo, invece, sono stato invitato all’Aquila, per aiutare a raccogliere fondi per la ricostruzione di un quartiere. Sono stato molto contento di andare in una situazione non “ufficiale”. Mi è piaciuta molto quell’esperienza, si è creato una clima molto bello. Certo è stato un grande dolore vedere L’Aquila così ferita».
Lei è un compositore di musica contemporanea sicuramente fuori dai dogmi, fuori dalla norma, almeno da quella rappresentata dai cavalieri della musica contemporanea (i grandi vecchi, si direbbe oggi), contro i quali si era scagliato tanti anni fa.
«Io mi ero scagliato contro un gruppo di compositori che avevano firmato una lettera che si riferiva non tanto ad altri compositori ma alla gestione di “Musica del nostro tempo”, una gloriosa rassegna di musica contemporanea che si faceva a Milano. Secondo me, ma anche secondo altri colleghi, aveva una programmazione un po’ troppo chiusa, rispetto alle musiche che circolavano nel mondo. Il mio era un invito ad aprire le porte. Cosa che poi è successa».
Compositore fuori dalla norma anche perché è anche un esecutore, a differenza del suo maestro, Luciano Berio.
«Il compositore scrive della musica e poi la suonano altri. Ho cominciato a un certo punto, ascoltando mie composizioni eseguite da altri pianisti, a capire che la mia esecuzione era più vicina a quello che era il mio pensiero. Allora ho pensato che fosse bello riprendere in mano il pianoforte. Così ho fatto un ciclo di opere per pianoforte. Da lì c’è stato un seguito. Ho cominciato a prenderci gusto. Forse nella dimensione doppia di interprete e compositore, combinazione tra aspetto teorico e pratico, ho trovato una dimensione più completa».
E’ fuori dalla norma anche perché non ha paura di «sporcarsi» con altri generi che non siano solo la musica colta.
«Io ho sempre amato, fin da piccolo, la musica popolare, e ho amato anche molti autori del passato, da Stravinskij a Bartòk, che attingevano molto dal folk. Non a caso il mio maestro più importante è stato Luciano Berio. Ho sempre pensato che nella musica popolare ci fosse l’alfabeto della musica. Poi all’interno dell’alfabeto ognuno trova la sua scrittura».
Inoltre, non ha avuto paura a misurarsi con il mercato.
«Sì, beh, in effetti la musica è un lavoro e uno vive di quello. Che c’è di male? Io penso che comunque ci sia una parte consistente del pubblico che ascolta musica, la conosce e la apprezza».
Infine, ma non per ultimo, non ha avuto paura di confrontarsi con la musica applicata, con le colonne sonore del cinema.
«Beh, io ho sempre avuto seguito le mie passioni. Il cinema e la musica nel cinema, fin da piccolo, mi dava grandi emozioni. Proprio in questo momento sto lavorando alla musica per un film sulla vita di Terzani».
Lei non è ortodosso, non risponde al cliché. Che tipo di compositore di musica contemporanea è?
«(ride) Beh, non saprei. Al di là di tutte le etichette io ho semplicemente seguito le mie curiosità, i miei ideali, le mie visioni. Non ho mai pensato di pormi su un piedistallo. Sono magari gli altri che diranno che tipo di compositore sono».
Lui è Ludovico Einaudi, classe 1955, torinese, compositore, pianista, autore di colonne sonore, dal cognome ingombrante (è il figlio dell’editore Giulio e nipote del presidente della Repubblica Luigi), musicista senza barriere, in quest’intervista racconta il suo punto di vista sul mondo delle note.
«Nightbook», lei scrive, è il punto di passaggio tra la luce e il buio, tra il noto e l’ignoto. Vuole spiegare meglio questo concetto?
«Penso che innanzitutto nella vita di un compositore, di un artista ci sia sempre il desiderio di esplorare territori nuovi nella propria creatività. Il mio lavoro ha rappresentato l’apertura verso nuove stanze, spazi musicali, nuove emozioni, nuove sensazioni, che, diciamo, aprono, illuminano le parti più oscure, più ombrose. Quella che cerco di proporre è una caratteristica più sognante, onirica, vicino al’inconscio».
Non è la prima volta che viene in Abruzzo. Come trova la regione da un punto di vista musicale? E in generale come valuta la situazione della provincia?
«La situazione della provincia italiana mi sembra in generale più interessante perché consente degli spazi in cui si riesce ancora a lavorare in modo approfondito, c’è maggiore spazio per i rapporti umani. Le grandi città sono diventate così caotiche e pretendono un tenore di vita così impegnativo che poi finiscono per togliere l’ossigeno anche a chi ha dei desideri diversi. Ricordo che venni a Pescara un paio di anni fa, all’interno di un festival che aveva una grande storia, e quindi aveva anche un grande pubblico, attento. L’ultima volta che sono stato in Abruzzo, invece, sono stato invitato all’Aquila, per aiutare a raccogliere fondi per la ricostruzione di un quartiere. Sono stato molto contento di andare in una situazione non “ufficiale”. Mi è piaciuta molto quell’esperienza, si è creato una clima molto bello. Certo è stato un grande dolore vedere L’Aquila così ferita».
Lei è un compositore di musica contemporanea sicuramente fuori dai dogmi, fuori dalla norma, almeno da quella rappresentata dai cavalieri della musica contemporanea (i grandi vecchi, si direbbe oggi), contro i quali si era scagliato tanti anni fa.
«Io mi ero scagliato contro un gruppo di compositori che avevano firmato una lettera che si riferiva non tanto ad altri compositori ma alla gestione di “Musica del nostro tempo”, una gloriosa rassegna di musica contemporanea che si faceva a Milano. Secondo me, ma anche secondo altri colleghi, aveva una programmazione un po’ troppo chiusa, rispetto alle musiche che circolavano nel mondo. Il mio era un invito ad aprire le porte. Cosa che poi è successa».
Compositore fuori dalla norma anche perché è anche un esecutore, a differenza del suo maestro, Luciano Berio.
«Il compositore scrive della musica e poi la suonano altri. Ho cominciato a un certo punto, ascoltando mie composizioni eseguite da altri pianisti, a capire che la mia esecuzione era più vicina a quello che era il mio pensiero. Allora ho pensato che fosse bello riprendere in mano il pianoforte. Così ho fatto un ciclo di opere per pianoforte. Da lì c’è stato un seguito. Ho cominciato a prenderci gusto. Forse nella dimensione doppia di interprete e compositore, combinazione tra aspetto teorico e pratico, ho trovato una dimensione più completa».
E’ fuori dalla norma anche perché non ha paura di «sporcarsi» con altri generi che non siano solo la musica colta.
«Io ho sempre amato, fin da piccolo, la musica popolare, e ho amato anche molti autori del passato, da Stravinskij a Bartòk, che attingevano molto dal folk. Non a caso il mio maestro più importante è stato Luciano Berio. Ho sempre pensato che nella musica popolare ci fosse l’alfabeto della musica. Poi all’interno dell’alfabeto ognuno trova la sua scrittura».
Inoltre, non ha avuto paura a misurarsi con il mercato.
«Sì, beh, in effetti la musica è un lavoro e uno vive di quello. Che c’è di male? Io penso che comunque ci sia una parte consistente del pubblico che ascolta musica, la conosce e la apprezza».
Infine, ma non per ultimo, non ha avuto paura di confrontarsi con la musica applicata, con le colonne sonore del cinema.
«Beh, io ho sempre avuto seguito le mie passioni. Il cinema e la musica nel cinema, fin da piccolo, mi dava grandi emozioni. Proprio in questo momento sto lavorando alla musica per un film sulla vita di Terzani».
Lei non è ortodosso, non risponde al cliché. Che tipo di compositore di musica contemporanea è?
«(ride) Beh, non saprei. Al di là di tutte le etichette io ho semplicemente seguito le mie curiosità, i miei ideali, le mie visioni. Non ho mai pensato di pormi su un piedistallo. Sono magari gli altri che diranno che tipo di compositore sono».